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Dal “Chinese-Virus” si è tornati a “coronavirus”: la nomenclatura con cui gli Stati Uniti affrontano la pandemia cambia tanto rapidamente quanto è cresciuta l’emergenza. L’America di Donald Trump è diventata il Paese più colpito da SarsCov2, e il presidente ha richiesto addirittura una conversazione con il segretario del Partito comunista cinese, il capo dello stato Xi Jinping.

È stata “un’ottima conversazione” twitta Trump – e chi segue il presidente sa ormai che il valore di un tweet è inestimabile all’interno del sistema di comando statunitense. “Abbiamo discusso in dettaglio il CoronaVirus che sta devastando gran parte del nostro Pianeta. La Cina è stata molto coinvolta e ha sviluppato una forte conoscenza del virus. Stiamo lavorando a stretto contatto insieme. Molto rispetto!”

Tutto cambia. Nei giorni passati la retorica attorno alla crisi sanitaria s’era sovrapposta – a tratti anche pesantemente – con quella del confronto tra potenze Usa-Cina che è diventato aperto e netto durante questi quattro anni di presidenza Trump. Un elemento dal valore geopolitico che negli Stati Uniti trova da sempre pochi distinguo tra Repubblicani e Democratici, forse l’unico territorio non divisivo nello scenario politico americano, che in questi giorni è diventato ancora di più punto di incontro.

La Cina ha diffuso informazioni alterate contro gli Stati Uniti nel quadro di un’infowar che ha portato il Partito comunista a muovere tutte le linee della propaganda per attaccare i rivali – sostenendo che il virus era un prodotto americano – e per rimodellare in forma revisionista la situazione. Xi ha portato il Paese che guiderà a vita in testa al proxy globale degli aiuti, facendo passare la Cina da salvatore del mondo, in grado di esportare beni e know-how contro il nemiche invisibile che dice di aver sconfitto per primo. In realtà rimangono dubbi sulla situazione cinese, che potrebbe riprodurre di nuovo le circostanze oscurantiste che hanno prodotto la crisi planetaria mentendo sul quadro attuale dei contagi.

Su questo s’è basato il confronto statunitense delle ultime due settimane. SarsCoV2, nome tecnico che la nomenclatura scientifica internazionale ha affidato al nuovo coronavirus, è stato chiamato dalle agenzie americane – dipartimento di Stato in primis – prima “Wuhan virus” e poi “Chinese virus”. Un modo per ricordarne l’origine, che da Pechino veniva aspramente accusato di razzismo. Era una controffensiva informativa che il tweet di oggi Trump ha momentaneamente messo in pausa. Dettagli non poco significativi.

Lo scollamento tra apparati e presidenza torna un elemento in mezzo alla crisi. Mentre Pentagono e dipartimento di Stato sono attivi nel respingere l’offensiva propagandistica cinese, Trump sembra frenare proseguendo sul doppio binario su cui si muove da sempre la Washington trumpiana. Pechino però si porta avanti: oggi il Global Times, giornale che si occupa di diffondere nel mondo (in varie lingue) la linea del Partito, scriveva che la telefonata dimostra come gli Stati Uniti stanno cercando di chiedere aiuto alla Cina, e riaprire il contatto politico dopo le retorica aggressiva – voluta dagli Usa, dice il giornale del CCP – dei giorni passati.

“L’atteggiamento mutevole degli Stati Uniti ha mostrato che la ricerca di aiuto da Pechino è un compito urgente per Washington, data la situazione di peggioramento della pandemia negli Stati Uniti, ma questa tregua in mezzo al gioco della colpa avviato dagli Stati Uniti non cambierà il corso della rivalità strategica e del complesso bilaterale dei legami, [sebbene] questa telefonata sta diffondendo un messaggio secondo cui la cooperazione anziché il confronto è l’unica scelta corretta tra i due paese”, scrive il GT.

Li Haidong, professore presso l’Istituto di relazioni internazionali della China Foreign Affairs University, rincara la dose: “La gravità della situazione nel Paese ha costretto Trump a esprimere la volontà di chiedere aiuto dalla Cina, per non parlare del fatto che gli Stati Uniti devono acquistare un’enorme quantità di dispositivi medici tra cui dispositivi di protezione individuale, kit di test e apparecchiature come i ventilatori”.

Negli Stati Uniti la situazione è effettivamente complicata. Ci sono oltre 85mila casi che iniziano a farsi sentire pesantemente sul sistema paese americano. Cresce l’ansietà. Le campagne per le presidenziali hanno subito un’interferenza enorme dalla situazione. Il democratico Joe Biden, frontrunner destinato a diventare il contendente, è praticamente bloccato: non può fare comizi, non può stare tra la gente, le primarie sono state interrotte, trasmette goffe dichiarazioni via streaming di scarsissimo appeal (che invece era i suo forte). Trump anche ha dovuto rimodulare l’intero messaggio: l’economia non va bene e la finanza è isterica, e allora cerca di descriversi come un “presidente di guerra” che fronteggia la crisi, ma i dati per ora non vanno bene nonostante abbia l’approval più alto di sempre (secondo l’unico istituto che conta, Gallup, che lo dà al 49 per cento).

Durante una crisi la leadership ottiene consenso, perché l’incertezza dei cittadini cerca dei riferimenti. Ma quando la situazione passerà forse gli americani si ricorderanno di quanto Trump sia stato gretto nel minimizzare la situazione (il 26 febbraio diceva che i casi erano talmente pochi in pochi giorni sarebbero “scesi a zero”, prima che si trattava di una semplice influenza e che l’influenza stagionale faceva più morti).  Un lavoro che intanto fa la Cina.

La China Eastern Airlines ha fatto sapere di aver mantenuto aperta la rotta per New York  – dove l’epidemia è molto diffusa: è lì il 35 per cento dei casi americani e il numero di contagi raddoppia ogni tre giorni, e “il picco è più alto di quello che pensavamo e arriverà prima di quando pensavamo” ha detto il governatore newyorkese, il democratico Andrew Cuomo. La compagnia cinese sottolinea che la linea di volo è aperta “nonostante altri Paesi l’abbiano chiusa”. Un importante pneumatologo cinese, sempre sul Global Times, si è occupato di spiegare come mai ora gli Stati Uniti sono il centro dell’epidemia globale e su cosa “possiamo” aiutarli.

L’operazione informativa di Pechino è solo all’inizio, a breve potremmo vedere operazioni di soft power molto affilato con cui i cinesi invieranno assistenza agli americani – già avviate tramite la Jack Ma Foundation. Sfruttano il contesto generale: ieri per esempio Cuomo diceva che gli sono stati inviati solo 400 ventilatori polmonari dal governo centrale quando ne servirebbero 30mila – “Cosa vogliono una pacca sulla spalla!?”. E se  a un certo punto, come dice il GT, quei ventilatori in più arrivassero dalla Cina?

Certo, gli Stati Uniti hanno strumenti di contrasto e conoscenza del settore dell’infowar. Da qualche giorno per esempio le potenti industrie dell’automotive hanno fermato alcune linee produttive per mettersi a disposizione nella produzione di apparecchiature medicali – un respiratore entrato in produzione monta la ventola del Ford F-150, un pick up. È la risposta orgogliosa dell’apparato industriale americano. Aiutato dal governo che ha allentato regolamentazioni e dato assistenza: la necessità è stringente, gli Usa non intendono esporsi alla narrazione cinese.

C’eravamo tanto sbagliati. E ora Trump abbraccia Xi

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