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Mentre una parte del governo si sta adeguando alla narrazione ossessiva di Salvini degli ultimi tre mesi, tesa ad evidenziare che “nel governo litigano su tutto” (cosa falsa all’inizio, sempre più vera oggi), Arcelor-Mittal fa la solita sceneggiata alla quale è abituata da tempo. Basta chiedere, tanto per fare un esempio, ai cittadini di Liegi, dove l’azienda franco-indiana ha chiuso uno stabilimento quando la crisi ha iniziato a fare capolino, negoziando prima una riduzione del personale, poi la cessazione della produzione.

È il solito gioco, particolarmente facile nel caso della siderurgia. Perché l’acciaio è di per sé un settore particolarmente pro-ciclico: tira quando l’economia va bene, cala la domanda quando l’economia si ferma. Comprensibile, soprattutto se si fanno acciai volti al mercato edilizio e delle infrastrutture. Sono i primi settori a risentirne.

Qualche banalità. Essendo pro-ciclico, il settore siderurgico è un pessimo ammortizzatore sociale. In caso di crisi servirebbero settori che vanno in controtendenza, la cui domanda è quantomeno rigida rispetto al reddito (che non reagisce cioè negativamente con il suo abbassamento). Ne esistono, sia tra i beni primari, sia tra i beni di lusso (il Made in Italy ne è pieno; ma naturalmente si può, a ragione, sostenere che ormai il Made in Italy è quasi interamente nelle mani di aziende estere). L’errore è stato accumulare capacità produttiva (si stima, con l’indotto, che l’ILVA valga circa l’1,5% del PIL italiano) in un settore pro-ciclico, fortemente impattante sul piano ambientale, e labour-intensive (il che andrebbe benissimo per combattere la disoccupazione… se avessimo salari competitivi sul piano globale, cosa che evidentemente non abbiamo e non ci possiamo permettere), sottoposto ad una concorrenza globale.

Inoltre, sempre perché pro-ciclico, il settore dell’acciaio si presta ad un costante tira e molla: chi prende in mano l’impresa può sempre dire che il mercato va male ed attendere sussidi statali, oltre che accordarsi per una riduzione dei livelli occupazionali; quando va bene, si incamerano i profitti. Il classico gioco della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti, per il quale siamo un paese famoso nel mondo ed al quale bisognerebbe che qualcuno si decidesse seriamente a mettere un freno.

Come uscirne? Dipende… Se il governo fosse coeso e coraggioso e se l’Unione Europea fosse un soggetto in grado di porre in essere una strategia industriale unitaria e condivisa, si potrebbe aprire un dialogo fra Italia e UE sulla trasformazione dell’ILVA in un impianto per la produzione di acciai speciali, ad altissimo contenuto tecnologico, destinati magari a sostenere il progetto (ma è ancora ancora vago) di una industria militare europea. In tal senso, si potrebbe pensare di: tenere in piedi il più grande impianto siderurgico europeo riorientandone la produzione verso una direzione meno pro-ciclica (la spesa militare non è soggetta a crisi), trainata da una domanda continentale; risanare sotto il profilo ambientale l’impianto, magari destinando esplicitamente a questo scopo una parte dei fondi strutturali, che notoriamente non vengono spesi; farci carico come paese della ristrutturazione industriale, visto che l’occupazione sarebbe comunque nostra.

Naturalmente, questo significherebbe in ogni caso un intervento pubblico di sostegno, ma almeno non sarebbero soldi buttati nel cestino (o nelle mani di qualche speculatore di turno); sarebbero investiti in un progetto sostenibile sia dal punto di vista ambientale che occupazionale, oltre che volto ad una innovazione  sulla frontiera tecnologica. Naturalmente, mancano le premesse: un governo coeso e coraggioso e un’Unione Europea in grado di porre in essere una strategia industriale unitaria e condivisa.

ILVA: una scommessa europea

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