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La Cina è una minaccia per la sicurezza delle telecomunicazioni anche quando di mezzo non c’è Huawei, il gigante tech di Shenzen accusato dal governo americano di spionaggio industriale. È quanto si legge nel nuovo report dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e della Brookings Institution di Washington DC, “La corsa globale per la superiorità tecnologica”, in collaborazione con il ministero degli Esteri italiano e il Centro sulla sicurezza cibernetica di Ispi e Leonardo.

COSA C’È DIETRO (E OLTRE) HUAWEI

A indicare il quadro più grande è Tom Wheeler, fellow della Brookings e imprenditore che dal 2013 al 2017 ha presieduto sotto l’amministrazione di Barack Obama la potente Commissione federale per le telecomunicazioni (Fcc), organo responsabile della regolamentazione delle telco americane contro cui proprio oggi la cinese Huawei ha intrapreso un’azione legale. “La Cina – avvisa Wheeler all’interno del report assieme all’ammiraglio e docente americano David Simpson – è una minaccia anche quando non c’è equipaggiamento Huawei nei sistemi di telecomunicazione”. Perché? Ecco spiegato: “Dalla riuscita estrazione di dati altamente sensibili sulla sicurezza dall’Ufficio del management del personale negli Stati Uniti comunemente attribuita alla Cina, alla campagna tutt’ora in corso in Europa e altrove da parte di attori maligni legati alla Cina, molti degli attacchi cinesi hanno sfruttato vulnerabilità in applicazioni e hardware non cinesi e la scarsa prevenzione cibernetica”.

I BANDI NON BASTANO

Wheeler, non proprio un passante nelle stanze dei bottoni dell’amministrazione Obama, spiega dunque che le preoccupazioni su Huawei, benché “legittime”, non devono far perdere di vista la vera posta in gioco, che è squisitamente geopolitica e ha a che vedere con un modus operandi di uno Stato che prescinde dalla singola azienda. Nessuna delle minacce precedentemente elencate, ammonisce l’ex funzionario, “scompare con un bando in bianco di Huawei”. Il focus “acchiappa-titoli” sull’equipaggiamento cinese “non dovrebbe cullare l’Occidente in un falso senso di sicurezza”. La sfida cinese per l’egemonia nel dominio cyber va ben oltre la telefonia mobile e il 5G.

L’ERA DELL’HYPERWAR

Nell’introduzione al report il generale John Allen, presidente di Brookings e già a capo della missione Nato in Afghanistan (Isaf), ribattezza questa nuova frontiera bellica nel dominio cibernetico “hyperwar”, “iper-guerra”, combattuta con l’Intelligenza artificiale (Ia) e le tecnologie emergenti, come il 5G, che per Wheeler e Simpson è “il più importante network del XXI secolo”. La linea che divide la guerra “convenzionale” dall’ hyperwar, spiega Allen, è anzitutto temporale. La velocità, l’efficacia, l’ampiezza di intervento permesse dall’uso congiunto dell’Intelligenza artificiale e di macchine cognitive aprono oggi frontiere prima sconosciute e rendono obsolete le dottrine militari del XX secolo. “In termini militari, l’hyperwar può essere definita come una tipologia di conflitto in cui i processi decisionali umani sono quasi del tutto assenti dal ciclo osserva-realizza-decidi-agisci (In inglese, Ooda). Di conseguenza, il tempo che serve per completare questo ciclo è ridotto a risposte quasi istantanee”.

LA PRESENTAZIONE AL CSA

Nessuno Stato, democratico e non, è estraneo alla competizione per il dominio cyber. Da questa premessa è partita la presentazione del report Ispi-Brookings giovedì mattina al Centro Studi Americani di Roma. Introducendo i lavori, Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi e di Fincantieri, già direttore del Dis (Dipartimento per l’informazione e la sicurezza), ha preso in prestito una metafora pugilistica per spiegare la corsa alla supremazia cibernetica. “È importante essere i primi a muoversi – ha detto in apertura – non si tratta solo di tecnologia ma di una competizione per il potere”. Gli ha fatto eco Allen: “Il grande stratega militare Carl von Clausewitz diceva che la natura della guerra rimane immutabile, ma il suo carattere cambia di continuo”. La grande domanda che si impone all’Occidente è, dunque, “quale direzione dare al cambiamento”.

CHI ARRIVA PRIMA? DEMOCRAZIE O REGIMI?

In conclusione del report presentato al Csa Samuele Dominioni, ricercatore all’Ispi, si chiede chi fra Stati democratici e regimi autoritari avrà la meglio nella competizione cibernetica. È una domanda che angustia da tempo gli addetti ai lavori. È infatti comunemente ritenuto che l’accentramento del potere e l’assenza di un regime regolatorio, per non citare l’irrilevanza dell’opinione pubblica, permettano ai regimi autoritari di fronteggiare “costi inferiori” negli investimenti in ricerca e sviluppo. Nel lungo periodo, però, si legge nel report, le debolezze economiche e politiche non permetteranno loro di “guidare la corsa per la supremazia tecnologica a meno che non riformino il loro sistema di governance in modo pluralistico”.

Non solo Huawei. Cosa c'è dietro la corsa all'egemonia cinese. Report Ispi-Brookings

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