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Sarebbero “oltre cento”. Secondo le informazioni ottenute dalla Reuters, dalle ultime notizie di due settimane fa, è praticamente raddoppiato il numero di soldati americani che hanno subito danni celebrali dopo l’attacco missilistico iraniano dell’8 gennaio.

Si ricorderà che dopo il raid aereo con cui gli Stati Uniti eliminarono il generale dei Pasdaran, Qassem Soleimani, l’Iran decise di rispondere con una rappresaglia missilistica contro due basi irachene che ospitavano anche personale americano.

Inizialmente il Pentagono aveva annunciato che non c’erano stati feriti, e lo stesso presidente Donald Trump aveva molto battuto sulla strada della minimizzazione. Parlando alla nazione del contrattacco subito aveva fatto capire che quella di Teheran era solo un’azione dimostrativa, e che senza vittime americane la serie di colpi proibiti si sarebbe chiusa lì.

Era stato il passaggio principale che aveva evitato l’escalation. E sullo stesso solco s’era posta la Repubblica islamica: il governo iraniano aveva cercato di tenere fermi gli animi più caldi — la linea aggressiva ultra-conservatrice che sta lavorando ai fianchi la leadership pragmatica che guida il Paese.

L’andamento delle notizie sui feriti statunitensi sembra confermare che la minimizzazione è stata una necessità scelta a tavolino. Le prime informazioni che smentivano le dichiarazioni ufficiali della Casa Bianca parlavano di una dozzina di feriti, ma erano arrivate comunque a distanza di sicurezza da possibili reazioni. Successivamente, quando erano già passati altri giorni, le fonti interne all’amministrazione — lato Pentagono — avevano fatto arrivare altri dati, confermati poi ufficialmente.

A fine mese si era arrivati a 64 feriti, e ora, stando alle ultime informazioni che “funzionari americani” passano alla Reuters si parla di “più di cento”. Molti sono ricoverati nelle strutture sanitarie delle forze armate Usa in Germania.

Per ora il Pentagono non aggiunge commenti ufficiali, ma è presumibile che come successo finora la difesa si troverà costretta ad ammettere qualcosa in più. Questione nemmeno troppo problematica, anzi (sebbene terreno di scontro politico quasi certo per i Democratici). D’altronde dalla vicenda Trump esce come un leader che ha sacrificato la trasparenza per evitare un’escalation militare.  Non è poco.

L’idea trumpiana dietro all’eliminazione di Soleimani era ristabilire la deterrenza, assestare un colpo doloroso al nemico in modo da dimostrare a tutti gli avversari che l’America ha ancora capacità militare, politica e decisionale per questo genere di mosse. Azione rischiosissima, un atto di guerra. Vicenda che per altro ha rafforzato le posizioni più aggressive all’interno del regime e del governo iraniano, facendo guadagnare a queste visioni anti-americane (anti-occidentali) spazi elettorali in vista delle parlamentari di fine febbraio. Esagerare con una contro-risposta per vendicare i feriti dall’attacco missilistico in Iraq sarebbe stato allora ulteriormente pericoloso. Rischiava di innescare una spirale in crescendo sul cui limite sarebbe stato difficile mettere un freno.

Non è un caso se certe informazioni escono adesso dunque — e non ci sarebbe da stupirsi se tra qualche tempo si venisse a sapere di più, tipo che c’è stata anche qualche vittima. È il sacrificio della trasparenza in nome del pragmatismo. E d’altronde è quello con cui Trump ha chiesto alla leadership iraniana di tornare a negoziare un qualche accordo per stabilire un quadro di sicurezza regionale.

Ne ha parlato proprio commentando l’attacco subito. La richiesta chiaramente è stata rifiutata da Teheran per mantenere uno standing davanti al duro colpo — val la pena ricordare che Soleimani era considerato un eroe ed era un grande pianificatore vicinissimo alla Guida, molto più di un semplice generale. La presidenza Rouhani non poteva piegarsi e giocarsi la faccia. Ma dietro al rifiuto c’è probabilmente anche la speranza di rimandare certe decisioni a quando alla Casa Bianca ci sarà il nuovo presidente, augurandosi dunque la non-rielezione del repubblicano.

Forse il contesto elettorale ha un peso anche nel quadro di queste notizie sui feriti. Con mutuo vantaggio. Tra una decina di giorni gli iraniani andranno a votare martellati dalla propaganda anti-governativa, che considera quello di Hassan Rouhani un esecutivo debole nei confronti degli Usa. Aspetto su cui incentrano le proprie politiche gli oppositori hard-core, e su cui muovono certe dinamiche di sabotaggi dall’interno. Far sapere ai cittadini iraniani che in fin dei conti il colpo assestato agli Stati Uniti non è stato poi così morbido, è utile per far passare l’esecutivo più severo della narrazione impostata dell’opposizione. Scelta tattica per gli Usa, perché in futuro avere davanti una controparte più simile a quella di Rouhani è sicuramente meglio di averne una radicale.

Mutuo vantaggio, si diceva, perché intanto Trump passa da dealer che ha cercato di tutto per evitare un’altra guerra. E non dimentichiamo che da almeno dodici anni le elezioni statunitensi vengono vinte da chi promette il disingaggio dalle “endless war”, come le chiama Trump — che da sempre batte sul tema. L’azione iper-assertiva contro Soleimani, che alcuni elettori abituati alla narrativa trumpiana si sono trovati in disaccordo, se ben gestita potrebbe diventare un’altra buona carta da giocare per la riconferma del presidente uscente.

 

 

 

Perché per Trump oltre cento feriti non valgono un'escalation con l'Iran (in vista di Usa 2020)

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