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La crisi delle ideologie nasce nel loro voler essere “sopra” la realtà, in quel “sorvolo” criticato da Merleau-Ponty. Come nota efficacemente Roberto Esposito (Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. 178), Marx ha confuso il livello ideologico con quello simbolico. Anziché vedere nell’ideologia l’effetto di un più generale dispositivo simbolico, ha ricondotto questo a quella. L’errore di Marx, sottolinea Esposito (op. cit., p. 178), (…) è riconducibile (…) all’illusione di poter chiudere l’intera realtà umana nei confini della società e della storia.

Come Esposito (op. cit., p. 179) indica il punto-limite cui perviene ogni ideologia, allorché non riesce più a governare la contraddizione che la genera – quella di attribuire  una configurazione universale a un fenomeno particolare, Morin (La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, p. 50) sottolinea che la seconda via della complessità è data – nelle scienze naturali – dal superamento di quei limiti che potremmo chiamare i limiti di quell’astrazione universalistica che eliminava la singolarità, la località e la temporalità(…) non possiamo eliminare il singolare e il locale ricorrendo all’universale. Dobbiamo al contrario connettere queste nozioni.

Ancora Morin (op. cit., p. 51) pone in evidenza il tema dell’order from noise (Heinz von Foerster, 1959) che indica che da un’agitazione o da una turbolenza disordinata possono nascere fenomeni ordinati (preferirei dire organizzati). Così i lavori di Prigogine hanno mostrato che strutture coerenti a forma di vortice potevano nascere da perturbazioni che apparentemente avrebbero dovuto dare come risultato delle turbolenze. È in questo senso che alla nostra ragione si presenta il problema di una misteriosa relazione tra ordine, disordine e organizzazione. Dunque, potremmo dire, l’ordine si istituisce nel disordine conflittuale e genera una organizzazione che non è data una volta per sempre ma che si (ri)forma.

Di straordinario interesse, rispetto al tema istituente, è la questione dei vincoli e delle qualità “emergenti”. Un sistema, nota Morin (op. cit., p. 51) è nel contempo qualcosa di più e qualcosa di meno di quella che potrebbe venir definita come la somma delle sue parti. Se da un lato, qualcosa di meno, ci sono vincoli che – in funzione del “comune” – inibiscono talune potenzialità che si trovano nelle varie parti, dall’altro lato il tutto organizzato è qualcosa di più della somma delle parti, perché fa emergere qualità che senza una tale organizzazione non emergerebbero. Sono qualità “emergenti”, nel senso che sono constatabili empiricamente ma non sono deducibili logicamente. Tali qualità emergenti esercitano delle retroazioni sul livello delle parti, e possono stimolare quest’ultime a esprimere le loro potenzialità.

L’istituire, nel disordine conflittuale che tende a un ordine (organizzazione) in (ri)forma, ci porta dentro – con Morin (op. cit., pp. 52 e 53) – a due ulteriori elementi fondamentali: il rapporto parte-tutto e la ricorsività. Scrive Morin che non possiamo più considerare un sistema complesso attraverso l’alternativa del riduzionismo (che vuole comprendere il tutto soltanto a partire dalle qualità delle parti) o dell’ “olismo” – non meno semplificante – che ignora le parti per comprendere il tutto. Già Pascal lo diceva: “Posso comprendere un tutto soltanto se conosco le parti in maniera specifica, ma posso comprendere le parti soltanto se conosco il tutto”. Per quanto riguarda la ricorsività, Morin così riflette: L’organizzazione ricorsiva è quell’organizzazione i cui effetti e i cui prodotti sono necessari per la sua stessa causazione e per la sua stessa produzione. È proprio il problema dell’autoproduzione e dell’autorganizzazione. Una società è prodotta dalle interazioni fra individui, ma queste interazioni producono una totalità organizzatrice che retroagisce sugli individui per co-produrli quali individui umani. Perché essi non sarebbero tali, se non disponessero dell’educazione, del linguaggio e della cultura. Il processo sociale è allora un anello produttivo ininterrotto nel quale in qualche misura, i prodotti sono necessari alla produzione di ciò che li produce.

In questo contesto, la conclusione che ne deriva riguarda il potere istituente, come definito da Esposito (op. cit., p. 173) scrivendo della democrazia come unico regime a riconoscere, istituzionalizzandola, l’assenza di fondamento. L’unico ad assumere questo punto vuoto come motore del proprio funzionamento. In essa, anziché impersonato da entità fantastiche o dal corpo mistico del sovrano, il potere è una struttura cava, inappropriabile in maniera definitiva, perché continuamente contesa da interessi e valori contrastanti. In questo modo esso assicura alla società un’identità in perenne trasformazione, in conseguenza dei rapporti di forza che si generano tra le sue parti, o partiti, contrastanti. Di tale dialettica il potere è insieme espressione e governo. Il suo luogo “è inoccupabile – conclude Lefort – ma nel senso che l’impossibilità di installarvisi si dimostra costitutiva del processo di socializzazione”.

Potere istituente e complessità, dunque, “qualificano” la democrazia come un processo imperfetto in progress; se guardiamo al mondo di oggi, c’è una grande necessità di proseguire nella riflessione.

(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e fra gli Stati, Link Campus University)

Paradigma politico istituente e complessità

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