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La visita del Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, in Vaticano, non poteva che richiamare l’attenzione per tanti motivi: il nuovo presidente arriva per la prima volta in Vaticano e il suo Paese costituisce una sfida di primaria importanza per l’Europa, per lo stesso Vaticano e per il dialogo ecumenico. Dunque sotto osservazione c’era molto. E lo aveva fatto capire chiaramente il capo della Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina, dove si combatte una guerra tra cristiani e in particolare tra ortodossi, con gli ucraini che hanno ottenuto dopo tantissimo tempo l’autonomia da Mosca, visto che in precedenza Kiev era parte del patriarcato di Mosca e, appunto di tutte le Russie.

La decisione del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha riconosciuto quella che si chiama autocefalia di Kiev, ha creato una sorta di scisma moscovita, che ha tentato di imporre la legge della sua forza numerica: ma Mosca è stata gelata dal riconoscimento della nuova Chiesa ucraina da parte della Chiesa greco ortodossa e dal patriarcato ortodosso di Alessandria, competente per il continente africano. E altri patriarcati sembrano prossimi. Dunque quello di Kiev è un conflitto tutto cristiano nel quale i cattolici ucraini hanno rischiato di essere il vaso di coccio. Ucraini, ovviamente, quindi vicini alla Chiesa autocefala per ovvi motivi, essendo ucraini ed essendo il conflitto tra russi e ucraini.

Così diviene delicatissimo il ruolo del Vaticano, che sulle dispute tra ortodossi ha osservato uno scrupoloso silenzio, ma non tacendo sulla necessità di cercare una soluzione non militare al conflitto. Sua Beatitudine Shevchuk, come riportato da Formiche.net già ieri, lo ha detto chiaramente: l’incontro in Vaticano “porterà alcuni nuovi sviluppi nel campo diplomatico. Quando diciamo che non esiste una soluzione militare nella guerra del Donbass (bacino orientale ucraino virtualmente e unilateralmente separato da Kiev) l’alternativa è sempre la diplomazia”.

Il comunicato ufficiale dice apparentemente poco: “I colloqui in Segreteria di Stato – spiega la nota- sono stati dedicati principalmente alla situazione umanitaria e alla ricerca della pace nel contesto del conflitto che, dal 2014, sta ancora affliggendo l’Ucraina. Al riguardo, si è condiviso l’auspicio che tutte le parti implicate dimostrino la massima sensibilità nei riguardi delle necessità della popolazione, prima vittima delle violenze, nonché impegno e coerenza nel dialogo. Sono state esaminate anche tematiche attinenti alla cooperazione bilaterale e al contributo della Chiesa cattolica, presente nel Paese in diversi riti. Sono state esaminate anche tematiche attinenti alla cooperazione bilaterale e al contributo della Chiesa cattolica, presente nel Paese in diversi riti.”

Leggendo si ha l’impressione che, se non ci si può essere dimenticati della Crimea – territorio ucraino annesso da Mosca-  l’attenzione prioritaria viene posta sulle persone. E se l’attenzione viene posta sulle persone entrano in ballo i loro diritti, sia dei russofoni che degli ucraini. Difficile assumendo questo metro leggere tutto in termini nazionalisti, con annessioni o cancellazioni. I confini non si modificano unilateralmente ma se ci si separa si tiene conto prima di tutto delle persone.

Di qui forse la chiave interpretativa dell’auspicio diplomatico mirato in particolare modo sul Donbass di Shevchuk. Che potrebbe non rendere felice il partriarca Kirill, ma potrebbe aprire scenari nuovi dal primato della forza e della negazione dei diritti altrui. Il Vaticano ha sempre temuto tentazioni iper nazionaliste, sia tra gli uni che tra gli altri. La guerra non poteva che favorirle entrambe. Ora si tratta di favorire ritorni di ragionevolezza, e il piccolo Vaticano ha dalla sua la forza della ragionevolezza, la stessa forza con cui Costantinopoli ha dimostrato alla portaerei moscovita che i numeri non sono sempre tutto nella vita. Soprattutto quella spirituale. Potrebbe essere così anche in quella diplomatica.

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