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Che Sanremo sia un pezzo della nostra identità nazionale, è risaputo. Che la popolarità del Festival della canzone italiana sia negli anni generalmente cresciuto, è a tutti evidente. Che esso però, negli ultimi anni, sia trasbordato, sciogliendo ogni tipo di confine, è elemento in sé rilevante e anche a suo modo preoccupante.

Prima di tutto, ad essere infranti sono stati i limiti temporali: l’evento dura ormai tutta la settimana e ogni serata tira fino a notte avanzata.

Si sono poi rotti anche i limiti di contenuto: le canzoni, fra l’altro sempre più destinate a vita effimera e di scarsa qualità, sono ora diventate quasi un contorno di qualcosa d’altro, a metà fra lo spettacolo più pacchiano, la politica più ipocrita e il moralismo a buon mercato.

Che bello il tempo in cui i cantanti facevano i cantanti, senza pretese di farsi guru o comunque di somministrarsi continui pistolotti moraleggianti nelle canzoni o a latere! In quel tempo, Sanremo non trasbordava nemmeno mediaticamente, e siamo al terzo oltrepassamento di confine: si conquistava sì ampio spazio nelle pagine degli spettacoli ma non, come oggi, diventava l’argomento principale e a caratteri cubitali nelle prime pagine di siti e quotidiani nazionali. Noi che sull’identità nazionale, ovvero sull’italianità, molto puntiamo, dovremmo essere fieri di questo successo che in altri Paesi non ha riscontri per manifestazioni analoghe. Né siamo tanto sprovveduti dal non sapere che in Sanremo si è da sempre, da una parte, riflettuto il Paese, il suo immaginario dominante, dall’altra, la volontà educatrice e legittimante della classe dominante. Il tutto amplificato dalle antenne della Tv di Stato.

Sanremo ha perciò seguito e registrato i cambiamenti dell’Italia, in primo luogo, e delle sue classi dirigenti, in seconda istanza. Un Sanremo trasbordante e moraleggiante come quello attuale mostra perciò la crisi di idee e legittimità dell’élite culturale attuale. La quale si aggrappa a una visione del mondo fatta di inclusione, buoni sentimenti, indignazione per le malvagità umane. Il tutto in un movimento di doppiopesismo ipocrita, da un lato (il male è sempre quello degli altri, dei “cattivi”); e di semplificazione, o semplicismo, comunicativo ed emozionale, dall’altro. Elemento, quest’ultimo, che contribuisce non poco a rinforzare e sedimentare non solo il conformismo culturale imperante ma anche la “povertà intellettuale” che caratterizza ormai il dibattito civile nazionale.

Sia ben chiaro, negli anni Cinquanta, il Festival rifletteva un’immagine compassata e bigotta di Italia che era altrettanto fallace. Il tutto però sembrava, e forse era, più vero e spontaneo, persino ruspante. Anche gli episodi e i cantanti di rottura erano veramente tali, non sembravano recitare un copione ove anche la contestazione è parte e conferma del sistema in atto. Gli intellettuali snobbavano allora Sanremo, ma poi l’avrebbero riscoperta nei tardi anni Settanta, sull’onda del “Riflusso” e della cosiddetta “cultura dell’effimero”. C’era molta postura, in questo loro atteggiamento, così come ce n’era in quello precedente di insofferenza e indifferenza. Oggi non si tratta di sdoganare la “cultura popolare” e di metterla in circolo e in tensione con quella “colta” o “elevata”. La fusione è già avvenuta, e ahimé ad un livello medio-basso: domina una cultura mainstream che tutto e tutti ci avvolge. E permettete, allora, che io dica: “A me o’ presepe nun me piace”.

Tutto il buono e il cattivo di Sanremo. Il commento di Ocone

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