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Potrebbe iniziare nel corso di quest’anno l’annunciata revisione della presenza militare all’estero degli Stati Uniti. Lo ha detto il capo del Pentagono Mark Esper che, nonostante le resistente di taluni apparati militari, sta portando avanti con decisione il piano dell’amministrazione targata Donald Trump, una progettualità le cui avvisaglie sono già emerse tra Siria e Afghanistan. L’obiettivo non è da confondere con la rinuncia a una postura internazionale, anzi. Come scritto nei documenti strategici, si tratta di riorganizzare le forze alla luce del nuovo confronto su scala globale con Russia e Cina.

LA DECISIONE

A Davos, Donald Trump ha spiegato con chiarezza cosa c’è alla base del disimpegno americano da alcune aree: “Oggi non dobbiamo più importare energia – ha detto – perché l’America è diventata il primo produttore al mondo di gas naturale”. Da qui la scelta di orientare gli sforzi verso altri obiettivi. Lo scorso ottobre, in conferenza stampa da Kabul, Afghanistan, il segretario alla Difesa Esper affermava di aver chiesto a tutti i comandanti di individuare modalità per liberare “tempo, denaro e forze da mettere sulle priorità indicate nella National Defense Strategy: numero uno la Cina, numero due la Russia”. In un’altra occasione, più recente, notava: “Abbiamo iniziato un processo di revisione che riguarda tutti i teatri, capendo quali sono i requisiti che ci prefiggiamo, assicurandoci di essere il più efficienti possibile con le nostre forze”.

LA TABELLA DI MARCIA

Poi ieri, in un incontro a Miami, Esper ha provato a definire una tabella di marcia per quella che ha chiamato “la revisione complessiva della Difesa”. Pur rinunciando a una deadline definitiva, ha detto di voler essere “sicuro di trovarci in una tipologia migliore di postura entro l’inizio del prossimo anno fiscale”, cioè entro il prossimo 1 ottobre. Visti i numeri degli impegni all’estero, “vuol dire che dovremmo spostarci abbastanza rapidamente”, ha aggiunto il capo del Pentagono. Esper parla di “spostamento”, proprio in virtù del desiderio di potenziare gli sforzi di deterrenza nei confronti di Mosca e Pechino, riducendo dunque impegni gravosi considerati ormai poco fruttuosi in tal senso, dal Medio Oriente fino all’Africa occidentale.

LE RESISTENZE…

Per Esper non sarà però facile mettere in atto la “revisione complessiva”. Le principali resistenze sono interne al Pentagono, disperse tra i comandi che non vogliono vedere ridursi le proprie forze. Al centro del piano del segretario alla Difesa ci sarebbero prima di tutto gli impegni in Africa occidentale e in America latina, rispettivamente di competenza di AfriCom e del SouthCom, quest’ultimo con sede a Miami presso la stessa base da cui Esper ha esposto la sua tabella di marcia. Sarebbero i primi nella lista delle riduzioni volute dall’amministrazione. Non a caso, le critiche maggiori sono arrivate proprio da lì, tra l’altro con argomentazioni del tutto in linea con la National Defense Strategy, e cioè sostenendo che proprio in quelle aree, Africa e America latina, la Cina sta aumentando la propria proiezione tra investimenti, rapporti commerciali e presenze militare.

…E LE RAGIONI

Il generale Stephen J. Townsend, da poco alla guida di AfriCom, ha chiesto più volte di poter avere più forze a disposizione per far fronte alla crescente espansione, economica e militare, di Cina e Russia in Africa. Lo stesso ha fatto il SouthCom, riportando costantemente notizia delle vendite di armamenti cinesi ai Paesi sudamericani, del sostegno di Pechino a Maduro e negli investimenti in molteplici progetti infrastrutturali. Secondo i dati forniti dal Comando di Miami, negli ultimi dieci anni la Cina avrebbe venduto al Venezuela armi per 615 milioni di dollari.

IL CLIMA ELETTORALE

L’impressione è che sulle scelte politiche pesi in maniera rilevante il clima elettorale in vista delle presidenziali del prossimo autunno. La riduzione degli impegni all’estero è stato uno degli elementi della campagna di Donald Trump già nel 2018. Il presidente punta a rispettare la promessa fatta, accelerando un riorientamento della proiezione militare che comunque precede (quantomeno nelle intenzioni) la sua presidenza. Che il tema si confonda con il percorso elettorale lo ha dimostrato ieri Joe Biden, ex vice presidente e considerato il candidato più accreditato a correre contro Trump. Firmando un articolo su Foreign Affairs, ha scritto: “È arrivato il momento di terminare le guerre senza fine (…); come ho a lungo sostenuto, dovremmo portare a casa la stragrande maggioranza delle nostre truppe impegnate in Afghanistan e in Medio Oriente, definendo in modo restrittivo la nostra missione: sconfiggere al Qaeda e lo Stato islamico”.

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