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Sono passati 12 anni da quando i dipendenti di Lehman Brothers uscirono dagli uffici con gli scatoloni in mano, regalando al mondo intero la foto simbolo della grande recessione. Un po’ come quei ragazzini che nella Germania posto bellica degli anni 20 giocavano a carte con le mazzette di marchi, che valevano poco più di niente. Una domanda che ci si pone in questi giorni di fine anno è se nel 2020 il mondo andrà incontro a una nuova recessione su scala planetaria. Non una domanda proprio campata per aria come spiega l’economista Bocconi, Francesco Daveri, in un report pubblicato dall’Ispi.

2020 ANNO DELLA (NUOVA) RECESSIONE?

“L’economia – così si legge sui manuali che la insegnano – evolve attraverso l’alternarsi di riprese e recessioni. Cioè dopo i trimestri di vacche grasse (tipicamente più numerosi e complessivamente più robusti in termini di nuovo reddito prodotto) arrivano quelli di vacche magre, concentrati in pochi ma spesso intensi momenti di contrazione dell’attività economica. Capita però che dall’ultima recessione siano ormai passati più di dieci anni: lo dicono i dati, l’ultima volta che il Pil del mondo è sceso rispetto al trimestre precedente era il secondo trimestre 2009”, scrive Daveri.

“E così gli investitori che usano l’analisi tecnica (lo studio delle regolarità passate per estrapolare le tendenze future dei mercati) hanno gli occhi puntati per capire non il se ma il quando della prossima recessione, perché, prima o poi, la recessione arriverà. Forse, perché no, già nel 2020”.

TUTTA COLPA (ANCORA) DEGLI USA

Era il 2007 quando gli Usa si fecero portatori sani della grande crisi, prima finanziaria e poi economica. Erano i mutui subprime, prestiti immobiliari concessi a chi non era in grado di rimborsarli. Il mondo scoprì la finanza allegra e il credito disinvolto. Gli States potrebbero concedere, forse, il bis. “Una seconda domanda molto rilevante e logicamente conseguente è: quando arriverà, da dove arriverà la prossima recessione? E qui si può semplificare: quando arriverà, arriverà dagli Stati Uniti”, spiega l’economista.

“Per due buone ragioni. La prima è che gli Stati Uniti – con un Pil pari a circa 20 mila miliardi di dollari – contano da soli per circa il 23 per cento del Pil mondiale (che nel 2019 è arrivato a 87 miliardi, dati World Economic Outlook, October 2019). La seconda è che una recessione negli Stati Uniti probabilmente si trascinerebbe dietro anche l’Eurozona e la Cina. La guerra tariffaria di Trump ce lo fa dimenticare, ma malgrado tutto il 22 per cento dell’import Usa continua a provenire dalla Cina e il 15 per cento dai paesi dell’Eurozona. Una recessione americana si trasmetterebbe direttamente attraverso i flussi di commercio internazionale al di là degli Oceani, Pacifico e Atlantico. Dalla combinazione di questi due elementi si capisce perché tutti guardano all’America per capire il se e il quando della prossima recessione mondiale”.

GLI INDIZI

C’è forse un’inzizio a tutto questo? Forse sì. E risale a qualche mese fa. “A un certo momento della scorsa estate si è verificata una circostanza piuttosto speciale che ha fatto improvvisamente salire le stime sulla probabilità di una recessione americana nel corso del 2020. Era il 5 di agosto. Proprio quel giorno il tasso di rendimento sul bond decennale del Tesoro americano scese all’1,75 per cento, mentre, nello stesso momento, il bond a trenta giorni produceva un rendimento più elevato, il 2,07 per cento”, ricorda Daveri.

“Si stava cioè verificando l’evento temuto dai mercati e denominato in gergo tecnico ‘inversione della curva dei rendimenti’. A volte, infatti, in contrasto con la logica dei mercati finanziari, la detenzione di un titolo a più breve scadenza risulta associata a una remunerazione più generosa rispetto a quella di un titolo a lungo termine. Ciò è in contrasto con la logica di funzionamento dei mercati finanziari, dove solitamente chi sostiene un rischio maggiore immobilizzando su un periodo più lungo i propri soldi riceve un premio. Invece, nello scorso mese di agosto i tassi a breve sono paradossalmente saliti al di sopra di quelli a lunga. Curiosità per gli addetti ai lavori e gli gnomi della finanza? Non proprio. Si dà infatti il caso che ognuna delle sei recessioni americane degli ultimi 60 anni sia stata preceduta proprio da un’inversione della curva dei rendimenti, il che accresce subito la potenziale rilevanza pratica dell’evento”.

APRIAMO GLI OMBRELLI. O FORSE NO

Bisogna dunque aprire l’ombrello in attesa della tempesta che potrebbe arrivare dall’altra costa dell’Oceano Atlantico? In realtà, no, spiega Daveri nel report Ispi. “La prima cosa da considerare è che l’inversione dei rendimenti era già scomparsa dopo pochi giorni, non appena il governatore della Federal Reserve ha ridotto il tasso di riferimento per il mercato interbancario e annunciato la sua intenzione di valutare altri ribassi nei mesi a venire. Se la Fed taglia i tassi di riferimento, anche i tassi sui titoli pubblici a più breve scadenza scendono, e così si torna alla normalità, con tassi a breve più bassi dei tassi a lunga. C’è poi anche da considerare che, se anche tutte le recessioni americane sono arrivate dopo un’inversione della curva dei tassi di interesse, non si può dire che tutte le inversioni della curva dei tassi siano finite in una recessione. In altri termini, qualche volta l’inversione della curva dei tassi fa suonare un falso allarme. È del tutto possibile che sia così anche stavolta e che non ci sia nessuna recessione americana dietro l’angolo nei prossimi mesi”.

SE GLI USA VANNO FORTE. PER ORA

Ricapitolando, non è detto che una recessione sia alle porte. Almeno finché l’economia americana tira. “Di sicuro, per ora, l’economia americana continua ad andare ragionevolmente bene. La crescita del Pil al netto dell’inflazione rimane superiore al 2 per cento annuo – la metà di quanto promesso da Donald Trump nel 2016 ma comunque il tasso di crescita più alto dei paesi del G7. Peraltro la crescita americana sembra sostenibile, dato che avviene con un’inflazione inferiore al 2 per cento – dunque sotto controllo – e una disoccupazione al 3,5 per cento – un dato che non si vedeva dal 1969, senza un’evidente accelerazione dei salari in eccesso rispetto all’aumento della produttività”, scrive l’Ispi. Nell’insieme quelli su Pil, inflazione e disoccupazione descrivono un’economia americana oggi in salute.

La conclusione è la seguente: in un mondo globale fortemente interconnesso come quello in cui viviamo, una recessione può nascere anche in alte parti del mondo diverse dall’America. Da una Brexit mal gestita, da un’implosione dell’economia tedesca in Europa o dell’economia cinese, o da una crisi di liquidità sui mercati finanziari. “Rimane però che, se l’economia americana riuscirà a garantire un altro anno di prosecuzione della crescita economica, molti degli altri eventuali problemi potranno essere assorbiti con maggiore facilità”. Insomma, Dio salvi gli Usa.

2020 anno della (nuova) recessione? Non è detto... Report Ispi

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