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Dall’urgenza di confermare gli impegni per gli F-35, alla sfida della nascente Difesa europea, passando per l’appartenenza convinta alla Nato e per l’annosa questione del budget troppo risicato per gli investimenti. Nel mezzo, anche il supporto all’export del settore e la scelta sul caccia di sesta generazione di fronte all’asse franco-tedesco. Sono tante le sfide che attendono Lorenzo Guerini, ministro della Difesa del Conte 2 scelto per prendere il posto di Elisabetta Trenta.

LA FIGURA POLITICA

Guerini è attualmente presidente del Copasir, l’organo che esercita la funzione di controllo parlamentare sull’intelligence nazionale. È inoltre membro della commissione Esteri di Montecitorio, guidata dalla pentastellata Marta Grande. Segue da tempo i temi della sicurezza nazionale, considerando che nella precedente legislatura, sempre alla Camera, è stato membro della commissione Difesa e del Copasir. A livello politico, ha svolto gli incarichi di portavoce, vicesegretario e coordinatore del Pd. Approda ora al ministero della Difesa, dove troverà l’attesa di un settore che ha osservato con attenzione la convulsa fase politica delle ultime settimane.

LA CENTRALITÀ DELLA NATO

Il riferimento certo è la “collocazione euro-atlantica” ribadita da Giuseppe Conte subito dopo aver ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico a formare il nuovo esecutivo. Ciò si traduce prima di tutto nella conferma della partecipazione convinta all’Alleanza Atlantica, un’appartenenza che, a prescindere dall’assenza di specifiche nella bozza del programma di governo, “non si discute”, ci ha spiegato Luca Frusone, deputato M5S e presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato. Un messaggio di continuità inevitabile quanto importante, visti gli occhi degli alleati ben puntati sul futuro politico del Paese. Oscillazioni pericolose non saranno ben viste. In più, solo una partecipazione convinta permetterà di proseguire nel tentativo di orientare la Nato verso uno sguardo più attento agli interessi a noi vicini, in primis il Mediterraneo e le variegate sfide del fronte sud.

ULTIMA CHIAMATA PER CAMERI

Ma i dossier aperti sono tanti. A fine agosto, i riflettori sono tornati ad accendersi sugli F-35, con l’urgenza di confermare al più presto gli impegni italiani per i prossimi lotti di produzione. Se ciò non avverrà entro fine settembre, infatti, lo stabilimento di Cameri, in provincia di Novara, si troverà privo di lavoro dal 2024, senza contare gli effetti sul rapporto strategico con gli Usa. La presidenza targata Donald Trump non ha fatto mistero di considerare il programma particolarmente rilevante nelle relazioni con gli alleati, utilizzandolo ad esempio come punta di diamante nel rilancio dell’intesa con la Polonia o come strumento di pressione sulla Turchia attraverso la sua estromissione dal Joint Strike Fighter. Oltre gli aspetti occupazione a Cameri (e sull’intera filiera) e quelli strategici con gli Usa, ci sono quelli operativi, con le Forze armate da tempo a ribadire la necessità di dotarsi del velivolo per affrontare i moderni contesti operativi.

I MEZZI TERRESTRI

Oltre l’F-35 c’è di più. Diverse incertezze riguardano anche i mezzi terrestri, per cui basta citare il caso del veicolo multi-ruolo leggero Lince, il più usato nelle missioni internazionali, di cui è disponibile la seconda versione (VTLM 2), più protetta ed efficace, ma ancora non a disposizione dei nostri militari. Il programma è stato inserito tra le novità dell’ultimo Documento programmatico pluriennale 2019-2021 del ministero della Difesa, con un impegno complessivo da 249,3 milioni in quindici anni per 398 mezzi, comunque una “prima tranche” per una richiesta decisamente maggiore. Ad apparire sbilanciata è la distribuzione delle risorse: 1 milione quest’anno, 6 il prossimo, e 13 nel 2021. Troppo poco per avviare una produzione a ritmi sostenibili.

L’ANNOSA QUESTIONE DELLE RISORSE…

Lo stesso si potrebbe dire di tanti altri programmi, tutti legati ai due problemi che affliggono la Difesa italiana, almeno a detta dei tanti vertici militari e rappresentanti industriali intervenuti a più riprese nelle commissioni competenti di Camera e Senato: mancanza di una programmazione di lungo periodo, e budget troppo risicati. Quella delle risorse è una questione che va piuttosto indietro nel tempo. La sfida sarà ardua, ma c’è da invertire il trend, superando uno sbilanciamento della ripartizione del bilancio che vede troppo impegno su personale a discapito di esercizio e investimento, le voci su cui si basano prontezza, capacità e operatività.

…E IL CONTESTO ATLANTICO

Con l’amministrazione Trump, il tema delle risorse è diventato ancor più rilevante in ottica Nato. Più del suo predecessore, il presidente americano ha fatto pesare nella sede atlantica l’impegno sancito in Galles nel 2014, cioè di spendere il 2% del Pil per la Difesa entro il 2024. La strategia adottata negli ultimi tempi (chiedere che si consideri il contributo nel complesso, e inserire anche le spese per la cyber-security) appare giusta e va proseguita, con ampio sforzo diplomatico e politico. Tuttavia, potrebbe non bastare. Aumentare gli investimenti deve essere una priorità non per i conti della Nato, ma per il mantenimento delle capacità attuali, affinché le Forze armate possano assolvere ai propri compiti e affinché l’industria possa conservare l’eccellenza vantata, seppur con difficoltà, fino ad ora.

IL SUPPORTO ALL’EXPORT

Il supporto al comparto industriale è d’altra parte un altro dei temi caldi. Con i budget nazionali in calo, lo sbocco naturale per l’industria di settore è l’export. A tal proposito, sembra ormai passato troppo tempo dalle prime richieste del comparto per una riforma (che non sarebbe neanche complicata, come spiegavamo qui) della normativa nazionale sul tema degli accordi governo-governo. Nell’esperienza dell’esecutivo giallo-verde, palazzo Chigi, Difesa e Parlamento avevano tutti rilanciato l’azione sul g2g, con l’obiettivo di dotare il Paese degli stessi strumenti che tutti gli altri Paesi con un comparto della Difesa rilevante hanno da tempo. L’impegno dovrà essere mantenuto, così da permette al settore di affrontare al meglio un mercato internazionale sempre più competitivo.

LA DIFESA EUROPEA…

Per l’industria si sta aprendo anche la partita della Difesa europea. L’Italia ha fatto la sua parte nella definizione delle regole del gioco del nascente Fondo europeo di Difesa (Edf), evitando ad esempio l’ipotesi di finanziare progetti bilaterali e smarcandosi così dall’eventualità di un asse franco-tedesco pigliatutto. Ora però arriva il bello: 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Saranno stanziati per lo più con la formula del co-finanziamento, che richiede evidentemente sforzi importanti da parte degli Stati che intendano partecipare. Se non si investirà nei progetti, difficilmente si potranno ottenere ritorni di lavoro e posizioni di rilievo.

…E IL CACCIA DI SESTA GENERAZIONE

La concorrenza appare agguerrita, con Francia e Germania che da tempo hanno manifestato l’ambizione a guidare la nascente difesa europea. Ne è esempio più evidente il Fcas, il progetto bilaterale (a cui poi si è aggiunta la Spagna) per un caccia di sesta generazione. Londra ha lanciato la sua contro-proposta con il Tempest, lasciando la porta aperta ad altre adesioni (come è avvenuto per la Svezia) e guardando anche al nostro Paese. Industria e mondo militare ripetono da mesi l’urgenza di fare una scelta. Non essere a bordo adesso significa non riuscire a sedersi al tavolo in cui si stanno decidendo ritorni di lavoro e requisiti operativi del velivolo del futuro.

F35, Nato e risorse. I dossier che aspettano Guerini, ministro della Difesa

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