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Doveva essere la “fine della storia”, come scrisse Fukuyama. Un’era finalmente e definitivamente dominata dalle democrazie liberali. Dall’assenza di tutti i muri, tanto che i Pink Floyd mantennero una promessa fatta pochi mesi prima della caduta del Muro e si riunirono a Berlino per un memorabile concerto dal vivo di The Wall: il Muro per eccellenza, simbolo di tutti i muri. Si annunciava una nuova era di pace, dialogo, cooperazione, integrazione crescente in Europa e nel mondo.

Oggi, a trent’anni dal crollo del Muro di Berlino, scopriamo invece di vivere in un mondo dominato dalle logiche dell’insaziabilità consumistica, da nuovi muri che vengono innalzati ovunque a distinguere un noi da un loro che speravamo finiti per sempre. Da una retorica dell’altro che attrae nuove, imponenti masse confuse, disilluse, arrabbiate. E che sta riportando indietro l’orologio della storia. Verso nuovi, ed allo stesso tempo antichi, orrori.

Sono stato a Berlino poche settimane prima del crollo del Muro. E sono passato ad est dalla stazione della metropolitana di Friedrichstraße. Un incubo fatto di porte blindate, scansioni ai raggi-ics, ordini impartiti da voci anonime e invisibili da Grande Fratello. E pensare che era il punto più agevole per passare ad est; oltretutto in un momento in cui si respirava ormai una tensione che si andava allentando. Eppure, una volta passato di là, la sensazione era di non essere più un uomo libero, ma un indiziato di cui seguire con attenzione ogni spostamento.

Mi sono commosso, insieme a milioni di altre persone, quando il 9 novembre del 1989 la folla ha abbattuto il muro. Ho gioito insieme ai berlinesi e a miliardi di altre persone nel mondo quando Leonard Bernstein ha suonato l’Inno alla gioia della Nona di Beethoven sostituendo “an die Freude” con “an die Freiheit”: un inno alla libertà. Insieme ai miei amici dell’epoca ho gridato con orgoglio, ricordando JFK: “Ich bin ein Berliner”!

Oggi in Europa e nel mondo siamo (quasi) tutti liberi di acquistare una macchina, un cellulare, un elettrodomestico. È quella che gli economisti chiamano, con una certa solennità, la sovranità del consumatore. Eppure non tutti abbiamo le stesse possibilità di farlo. Non secondo le nostre competenze/professionalità, ma quasi sempre a seconda del paese in cui siamo nati; o della classe sociale in cui i nostri genitori si sono trovati, raramente grazie ai nostri (o ai loro) sforzi. L’illusione del consumismo ci ha resi sempre più schiavi delle merci; è la capacità di accaparramento a determinare la distinzione sociale, in un contesto in cui tutte le ricchezze immateriali (arte, cultura, tempo libero) perdono quotidianamente d’importanza sociale riconosciuta e certificata. Le diseguaglianze crescono, nel mondo e in ciascun singolo paese. Creando nuovi muri: prima psicologici; poi sociali; fino a quando non diventano fisici.

I muri presuppongono una contrapposizione fra corpi omogenei ma diversi, fra chi sta da una parte e chi dall’altra. È una palese perversione, che è servita nel tempo a giustificare separazioni, esclusioni sociali, carneficine. Se vogliamo davvero abbattere i muri, dobbiamo riconoscere che solo costruendo una società intelligentemente integrata e solidale è possibile abbattere i pregiudizi che portano alla divisione, che non è mai stata portatrice di pace e benessere, se non per i pochi che l’hanno sapientemente sfruttata a fini di conquista e mantenimento del potere personale.

La Comunità Europea, che si apprestava nel 1989 a diventare Unione Europea, considerata all’epoca il cantiere di una nuova sperimentazione della convivenza civile – basata sull’integrazione piuttosto che sulla divisione, sull’inclusione piuttosto che sull’esclusione sociale, sulla ricchezza dell’unità nella diversità – non è stata in grado di raccogliere l’enorme sfida che la Storia le aveva posto davanti. L’ha affrontata con lentezza, con timore, con pavidità, con istituzioni e meccanismi decisionali contraddittori rispetto a quanto andava promettendo: con scelte compiute all’unanimità, con un metodo sempre meno comunitario e sempre più intergovernativo, con una sistematica carenza di legittimità democratica diretta dei cittadini europei sulle scelte compiute in nome e per conto loro. Integrando i mercati, la moneta; ma dimenticando la più ampia dimensione sociale e politica dello stare insieme. Dimenticando soprattutto di offrire ai propri cittadini nuovi valori comuni in cui riconoscersi sulle macerie di quelli appena abbattuti.

A trent’anni da quel sogno, è l’ora di avere coraggio. Di riprendere i lavori nel cantiere europeo. Di costruire una società inclusiva, plurale e multilivello. Per dimostrare al mondo intero come si abbattono davvero, e per sempre, i muri.

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