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Una presenza dell’Italia per pattugliare lo stretto di Hormuz in raccordo con gli Stati Uniti sarebbe “nell’interesse nazionale della Penisola”, che sui principali dossier di politica estera, innanzitutto Cina e Iran, “non può restare neutrale e barcamenarsi”.
A crederlo è Carlo Pelanda, professore di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, che in una conversazione con Formiche.net sposa l’appello di questa testata affinché il governo “compia una scelta di campo occidentale” e spiega in che modo Roma potrebbe ritagliarsi uno spazio nel risiko delle attuali relazioni geopolitiche.

Professor Pelanda, sono molti i dossier di politica estera che secondo diversi osservatori dovrebbero vedere un impegno, oggi assente o minimo, dell’Italia. Quali sono quelli che al momento considera prioritari?

Al momento l’interesse principale dell’Italia è quello di utilizzare nel migliore dei modi i due moltiplicatori di potenza a sua disposizione, ovvero Unione europea e Nato. Il primo è essenzialmente un moltiplicatore economico, perché aumenta le esportazioni anche se con alcuni dubbi. Il secondo lo è dal punto di vista militare e rappresenta oggi l’unico sistema integrato interoperabile di difesa di questa portata al mondo.

Come sfruttare al meglio l’adesione all’Alleanza Atlantica?

Dovremmo assumere in seno alla Nato una posizione che incoraggi un allargamento della presenza nel Pacifico in funzione anticinese – anche se non direttamente – e nello spazio extra-atmosferico.
Si tratta di due mosse che spiazzano la Francia, perché il progetto di difesa europea macroniana è essenzialmente post-Alleanza Atlantica. E sono anche i due ambiti principali nei quali lo scontro strategico tra Washington e Pechino si svilupperà nei prossimi anni. Sul piano più immediato, invece, sarebbe opportuno che fossimo presenti a Hormuz.

Su quest’ultimo punto Formiche.net ha lanciato un appello al governo perché Roma si impegni nella difesa dello stretto. Qual è la sua opinione in merito?

Lo considero un appello giusto, per diverse ragioni, innanzitutto perché è da stimolo nel far comprendere come una nazione come la nostra – ovvero una media potenza – dovrebbe utilizzare le istituzioni e i consessi internazionali, fossero la Nato o anche il G7. Se diamo per scontato che la nostra collocazione sia atlantica, dobbiamo tenere a mente due principi fondamentali delle relazioni internazionali: che vige la legge del più forte e, soprattutto, che per ricevere bisogna dare. Al momento gli Stati Uniti sono non solo un Paese amico, ma l’unica superpotenza globale. E, sebbene non siano ancora giunte richieste in tal senso, è chiaro che una nostra presenza sul posto, meglio se arrivata di spontanea volontà e come frutto di una decisione ragionata, non può che avere un forte valore politico ed essere ben vista oltreoceano, tanto più in momento in cui i Paesi europei sono riluttanti a farlo. Inoltre, va considerato che può esserci anche molto utile dal punto di vista addestrativo. In cambio potremmo chiedere, ad esempio, che Washington attutisca la posizione punitiva nei confronti di Berlino che potrebbe emergere dalla riapertura a novembre delle trattative Usa-Ue sull’area di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico. A sua volta, questa mossa potrebbe essere utile per trovare sponde tedesche in Europa e bilanciare così la Francia.

Che cosa dovrebbe fare l’Italia a Hormuz?

Il pattugliamento di quelle zone è una cosa complicata, molto più della missione antipirateria al largo di Somalia e dintorni, perché si rischiano attriti con un potenziale nemico piuttosto evoluto. Ed è importante che questo nemico non percepisca la presenza italiana come il ventre molle del sistema, dunque il nostro arrivo avrebbe senso solo se portassimo una portaerei e diversi pattugliatori, e fossimo pienamente integrati con gli Usa grazie alle procedure Nato. Naturalmente resta aperta la questione dell’essere presenti per garantire la sicurezza e i traffici nell’area o per fermare l’Iran. Comunque bisogna scegliere, il che vuol dire concordare con gli Stati Uniti uno spazio di relazione economica con la Cina (tenendo conto anche della posizione del Vaticano) e l’Iran, stabilendo una soglia di scambio tecnologico da non superare. E, contestualmente, valutare le controreazioni di Francia e anche Germania, che difendono a loro volta i loro interessi nazionali. Ad ogni modo l’Italia non può restare neutrale e barcamenarsi.

Perché a suo avviso Roma deve compiere una scelta?

Perché altrimenti, dopo l’irrilevanza, rischia di rimanere schiacciata dai suoi competitor. Credo che i politici capiscano questo concetto, perché hanno un istinto per il pericolo. Per questo all’appello credo che vada aggiunto un amichevole avvertimento, rivolto alla nostra politica: o ci si schiera o si cadrà. Purtroppo, abbiamo al governo una classe dirigente indecisa sul da farsi, che non solo vede al suo interno posizioni diverse, ma è anche inesperta sui temi di politica estera. Tuttavia, sta giocoforza apprendendo in fretta. A loro dico: le nostre istituzioni sono fornite di ottimi tecnici in grado di delineare una strategia che possa fare gli interessi nazionali dell’Italia. Serve che ci si chiuda in una stanza e si identifichino le mosse migliori per ottenere questo risultato. Non sarà facile, l’unico modo per restare a galla è adottare una strategia improntata al realismo. La chiarezza politica che oggi non c’è verrà altrimenti imposta dall’esterno.

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