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Ha lasciato il suo ufficio senza troppi clamori, ma non ha rinunciato a un paio di tweet tra il nostalgico e il piccato. Martin Selmayr è stato l’euroburocrate più potente e meno longevo. Con tutta probabilità sarà ricordato con il nomignolo che gli era stato affibbiato durante gli anni a fianco di Jean-Claude Juncker: Rasputin. Da noi è salito agli onori delle cronache politiche quando il Pd di Matteo Renzi lo sfidò apertamente, di fatto chiedendone le dimissioni.

Dal primo novembre l’avvocato 49enne di Bonn ha lasciato l’incarico di segretario generale della Commissione, la poltrona più importante dell’esecutivo europeo conquistata appena venti mesi fa. Consigliere prima ascoltato poi temuto del presidente uscente Juncker, ora è alla guida degli uffici dell’esecutivo europeo in Austria. Difficile considerarla una promozione. “Quindici anni fa sono entrato alla Commissione europea come giovane funzionario. Dopo un periodo affascinante a palazzo Berlaymont, ora passo a nuovi pascoli più verdi (vedremo) di Vienna”, ha annunciato con un tweet dal sapore amaro.

Già nel luglio scorso la Commissione aveva comunicato un cambio della guardia al vertice della macchina amministrativa in coincidenza con l’arrivo di Ursula von der Leyen. L’annuncio non stupì nessuno. Sebbene Selmayr sia tedesco e vicinissimo a Angela Merkel (quindi in teoria a von der Leyen), è stato giudicato troppo ingombrante per affiancare la nuova presidente. Le scelte e il suo stile hanno messo in imbarazzo più di una volta persino i falchi teutonici. Nonostante il piglio rigorista (la linea dura sulla Grecia e tanti richiami del passato all’Italia portano la sua firma) poco in sintonia con i conservatori bavaresi della Csu, che in Europa hanno un certo peso.

Prima della nomina a segretario generale, arrivata a sorpresa nel febbraio del 2018, Selmayr è stato quattro anni Capo gabinetto della Commissione. Un incarico fiduciario e di staff al servizio del presidente, è stato quello il periodo di massimo potere. Ogni decisione presa dai singoli commissari doveva passare da lui più che da Juncker, dalle policy alle nomine. Responsabile di alcune dimissioni eccellenti, come quelle di Carlo Zadra al tempo consigliere giuridico e unico esponente italiano nello staff di Juncker, a cui Selmayr aveva tolto le deleghe su giustizia, affari interni e infrazioni a seguito del Consiglio europeo di fine 2015.

Le prime fasi della trattativa sulla Brexit sono state influenzate del capo dello staff di Juncker. Mal tollerato dagli altri commissari e dagli altri dirigenti europei e alla fine anche dal presidente della Commissione che lo ha promosso nella posizione amministrativa più alta pur di allontanarlo dai suoi uffici.

Poco prima c’erano state richieste di dimissioni, come quelle (smentite ufficialmente) del governo Renzi. Un’interrogazione presentata da un eurodeputato Pd lo accusava di fornire informazioni riservate al governo tedesco e di essere dietro varie dichiarazioni contro l’Italia passate alla stampa con la formula “fonti della Commissione”.

La nomina a segretario generale suscitò polemiche e proteste, letta come l’ultima impresa di Selmayr il “Frank Underwood” della Commissione come scrisse il quotidiano francese Liberation. La conquista di un incarico a vita al vertice delle istituzioni Ue. Non era così come dimostra il trasloco a Vienna. Selmayr ha passato gli ultimi mesi della presidenza Juncker nella posizione di maggior peso, ma di fatto con un incarico a tempo. Poi ha obbedito lo spoil system di von der Leyen (avrebbe potuto resistere ma non lo ha fatto) e accettato l’incarico alla periferia dell’impero.

“È stato un periodo intenso e di duro lavoro, ma l’Europa ora è migliore. Alla prossima puntata!”, ha scritto in un altro tweet di commiato dal team di Juncker. Come dire, mi dispiace, ma l’incarico viennese è solo una tappa, tornerò.

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