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Il 26 marzo di quattro anni fa Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti lanciavano operazioni militari in Yemen, con il supporto di Stati Uniti e Regno Unito, per sostenere il governo locale di Abd al-Mansour Hadi contro i ribelli Houthi che avevano occupato la capitale dello Yemen, Sana’a, dal 2014. Da subito è stato evidente come queste operazioni avrebbero irreversibilmente trasformato un conflitto domestico, scaturito in seguito alla Primavera yemenita del 2011, in uno scontro anche regionale e globale. Alle tensioni decennali tra le varie comunità yemenite si è sovrapposto la scontro per procura tra Arabia Saudita e Iran e la competizione tra potenze globali che intendono proteggere i propri diritti, soprattutto di navigazione, nello strategico Mar Rosso. Questa triplice natura del conflitto yemenita rappresenta senza dubbio il maggiore ostacolo alla risoluzione di una guerra che è anche uno dei più grandi disastri umanitari contemporanei.

A più di quattro anni dall’inizio del conflitto, le condizioni per un cessate il fuoco duraturo, o per una riconciliazione, non sono all’orizzonte. Le Nazioni Unite, dopo anni di tentate negoziazioni, hanno notevolmente ridotto le aspettative e, per tutto il 2019, si è lavorato su un singolo obiettivo: preservare il maggiore porto d’ingresso per gli aiuti umanitari, quello di Hodeida, dal conflitto. Altre negoziazioni informali – come quelle mediate dal vicino Oman – si sono arenate davanti alle crescenti tensioni all’interno del golfo Persico e tra le petromonarchie stesse, rafforzate dalla crisi con il Qatar del giugno 2017.

Nonostante questi fallimenti della diplomazia, tra il 2018 e il 2019 l’umore delle potenze più coinvolte nel conflitto è cambiato profondamente, con la determinazione strategica che ha fatto posto all’affaticamento per una guerra che sembra sempre più un pantano. Per i sauditi la guerra in Yemen serviva a impedire il rafforzamento politico dei ribelli Houthi, che a Riad sono considerati manovrati dall’arcinemico Iran. Per gli Emirati Arabi, invece, il conflitto si inserisce in una strategia di espansione d’influenza che guarda soprattutto al sud del Paese, dove si trovano le risorse energetiche e i porti strategici, come quello di Aden. Mentre gli emiratini sono riusciti, fino a un certo punto, ad assicurare i propri interessi, per i sauditi il quadro è più complicato e gli Houthi sono indeboliti, ma non sconfitti. Nonostante ciò, le due potenze regionali sono alla ricerca di una exit strategy: il conflitto ha drenato risorse finanziarie e militari e, con la consapevolezza globale del disastro umanitario che ha causato, rappresenta un enorme problema politico per entrambi.

A maggior ragione lo Yemen rappresenta un problema politico per i governi di Regno Unito e Stati Uniti, dove l’opinione pubblica ha fatto pressioni sugli organi parlamentari per interrompere il sostegno militare alla coalizione sauditoemiratina. Dopo una serie di risoluzioni in questo senso, con sostegno bipartisan, il Pentagono americano ha interrotto il supporto aereo alla coalizione e il governo britannico ha raddoppiato gli sforzi diplomatici per chiudere la partita.

Ma di fronte a questi recenti segnali positivi a livello regionale e globale, la dimensione domestica del conflitto resta più intricata che mai. Nel sud del Paese sono nate fazioni politiche e milizie che, grazie a finanziamenti e addestramenti, si sentono molto più vicine a realizzare i loro obiettivi di secessione. Nell’entroterra, tribù sunnite, vicine alla Fratellanza musulmana, vogliono garantirsi un posizionamento favorevole nel futuro politico del Paese. I ribelli Houthi non hanno intenzione di tornare a settentrione, nella loro regione d’origine, Sa’ada. Nell’instabilità, proliferano gruppi estremisti legati al jihadismo. Insomma, aggravate dall’interferenza di potenze regionali e globali, le lotte intestine yemenite difficilmente vedranno una soluzione di breve termine.

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Di Cinzia Bianco

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