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Quanto è cambiata la Nato in questi primi settanta anni e che ruolo potrà svolgere, ancora, in futuro, per garantire la sicurezza collettiva dei suoi membri? Quali sono i rapporti interni all’Alleanza e che ruolo possono recitare l’Italia e le proprie Forze armate al suo interno?
Sono alcuni dei temi affrontati in una conversazione con il generale Vincenzo Camporini, consigliere scientifico dell’Istituto Affari internazionali, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e della Difesa.

Generale Camporini, in questi giorni si celebra l’anniversario della fondazione dell’Alleanza atlantica, avvenuta a Washington il 4 aprile del 1949. Dopo 70 anni quanto è cambiata la Nato?

La Nato ovviamente in questi settanta anni è molto cambiata, in diversi aspetti. È un’alleanza transatlantica dove è presente un azionista di maggioranza, una sorta di “fratello maggiore”, che però per decidere ha bisogno del consenso e dell’appoggio anche degli altri azionisti. È chiaro che nel corso degli anni anche il rapporto interno all’Alleanza è molto cambiato, perché durante la Guerra fredda, dove la Nato era più ridotta nel numero dei suoi componenti, vi era forse una maggiore solidità e aderenza ad una sorta di comune “sentimento atlantico”, che anche in situazioni difficili permetteva di raggiungere decisioni importanti e delicate, partendo anche da punti di vista e interessi differenti. Per esempio mi riferisco al caso della crisi degli euromissili.

Oggi, invece, qual è la situazione?

Oggi, dopo la fine della Guerra fredda, le cose sono mutate. La Nato è aumentata nel numero dei suoi membri e questo afflato comune è in parte cambiato, perché è più influenzato anche dai punti di vista e dalle priorità dei singoli Paesi, è condizionato anche dalla presenza dei nuovi membri dell’Alleanza, e da alcuni elementi critici nuovi, oggi presenti. Infatti, sul piano europeo è evidente che vi sono differenze tra i Paesi membri: da un lato vi sono ad esempio i Paesi dell’est e i Baltici, entrati nell’Alleanza più recentemente, che hanno come priorità il contenimento russo; mentre sul versante meridionale tendiamo a dare priorità al tema del Mediterraneo che è però un tema poco sentito dai Paesi del nord-est. Inoltre, all’interno dell’Alleanza, abbiamo anche una questione aperta, di cui prima o poi dovremo occuparci, che riguarda il rapporto con un alleato importante come la Turchia. Dall’altro lato dell’Atlantico, invece, negli Stati Uniti, il tema dell’adesione alla Nato è un tema di largo consenso ancora oggi, sia in ambito militare sia politico, dove è chiaro che l’esistenza della Nato e il rapporto con gli alleati è centrale anche per la sicurezza nazionale americana. Ma nonostante questa larga adesione alla Nato in molti ambienti militari e politici americani, qualche elemento di dubbio ha riguardato, in alcuni casi, l’atteggiamento da parte dell’attuale presidenza, da cui la Nato è stata spesso inquadrata più come un costo e non sempre in termini positivi. Questa incertezza è un tema aperto, non solo per l’importanza che la Casa Bianca riveste nel sistema istituzionale americano, ma anche perché un eventuale disinteresse verso la Nato potrebbe generare un clima di sfiducia tra gli alleati e, in un’alleanza, il tema della fiducia reciproca è fondamentale. Credo comunque che l’appartenenza degli Usa alla Nato non sia in discussione, il Congresso non permetterebbe mai un’uscita e non credo nemmeno che nessuno realmente lo desideri.

In questo 2019, che è un anno ricco di anniversari, ricorrono anche i 20 anni dall’intervento della Nato in Kosovo. Si trattò allora di un intervento che coinvolse molto anche il nostro Paese. Quanto è stata importante nel quadro nel processo di evoluzione dell’Alleanza quella vicenda e che cosa ha comportato?

L’intervento in Kosovo è stato molto importante perché ha determinato un salto di qualità all’interno dell’Alleanza essendo stato il primo intervento armato fuori dai suoi confini. Si trattò di una novità assoluta, determinatasi in virtù della situazione politica del tempo, non priva di problematiche, legate anche al fatto che mancava al momento dell’intervento un pronunciamento chiaro delle Nazioni Unite. Fu una grande novità, perché prima di allora, soprattutto durante la Guerra Fredda, mai si sarebbe pensato ad un intervento fuori aerea da parte dei Paesi Nato. Ma è stato un episodio molto rilevante anche per il fatto che ha messo chiaramente in luce la sostanziale insufficienza degli europei nelle gestione delle problematiche di sicurezza e la loro dipendenza in questo rispetto agli Stati Uniti. Gli europei senza gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di intervenire e alla fine l’operazione fu possibile proprio perché gli americani decisero, non senza qualche reticenza iniziale, di intervenire per bloccare una situazione molto grave.

In questi settanta anni di presenza dell’Italia nella Nato, quanto sono cambiate le nostre Forze Armate?

Le forze armate italiane hanno subito in questi anni una serie di cambiamenti rivoluzionari che le hanno radicalmente modificate. Intanto, in ambito Nato, a partire già dagli anni sessanta, abbiamo imparato ad operare con gli altri, integrando le nostre forze con quelle degli alleati. Certamente non è stato un processo semplice, al quale le diverse Forze armate italiane sono giunte con tempi diversi. Per esempio l’Aeronautica e la Marina, per la natura stessa delle loro attività, si sono integrate prima con gli alleati rispetto all’Esercito che per decenni è rimasto ancorato alla “Soglia di Gorizia”, ma dalla caduta del muro di Berlino il nostro strumento militare si è rapidamente trasformato in un insieme proiettabile. Nel tempo, aumentando le occasioni di collaborazione e di confronto reciproco con i nostri partner, tutte le nostre Forze armate si sono pienamente integrate e abbiamo assistito ad una crescita costante delle loro capacità operative fino ai livelli attuali.

Le Forze armate italiane in tempi recenti hanno anche vissuto alcuni cambiamenti importanti, pensiamo alla fine della leva.

Certamente, i cambiamenti importanti a cui lei fa riferimento hanno inciso notevolmente anche per far fare alle nostre Forze armate un ulteriore passo avanti e un salto qualitativo. Quelli più recenti, che hanno favorito questa crescita costante, sono stati tre. Mi riferisco al processo di professionalizzazione del personale militare, all’inserimento del personale femminile, e da ultimo, ma su questa strada il cammino è ancora lungo, lo sviluppo della capacità di collaborazione interforze. Sono stati tutti processi di grande cambiamento che hanno permesso un’evoluzione notevole alle nostre Forze armate, aumentando la nostra compatibilità con gli altri, pur mantenendo, anzi valorizzando al meglio, le nostre specificità, che oggi sono uno dei nostri maggiori punti di forza.

A questo proposito, l’Italia partecipa a molte missioni all’estero, alcune anche in ambito Nato. Quale è il giudizio che tra gli alleati viene dato al lavoro e alla presenza delle Forze armate della Penisola?

Vi è stata una crescita costante della nostra credibilità all’estero. Noi oggi dimostriamo di avere una grande capacità di operare con gli altri, anche in contesti molto difficili e complessi. Siamo riusciti a evidenziare qualità importanti e abbiamo superato anche un certo pregiudizio negativo nei nostri confronti. Oggi queste forme di diffidenza sono scomparse, anzi, siamo molto stimati e richiesti anche in virtù proprio delle nostre qualità e delle nostre specificità, che per lo svolgimento di alcune operazioni ci rendono unici e indispensabili. E non mi riferisco, per esempio, solo ai Carabinieri, che nello svolgimento di operazioni di peacekeeping sono utilissimi e richiestissimi, ma anche a tanti altri reparti presenti in un tutte le nostre Forze armate che sono diventati essenziali, nello svolgimento di operazioni anche in teatri molto rischiosi. Questo salto di livello è stato possibile anche grazie alla qualità del nostro personale. Una qualità che deriva dalla preparazione di base – i nostri soldati hanno tutti un diploma di scuola superiore – nonché all’attività di formazione e addestrativa svolta dopo l’arruolamento. Devo dire che molto del buon lavoro svolto in questi anni di missioni all’estero è dovuto proprio al livello eccezionale delle nostre risorse umane, che devono essere valorizzate e protette il più possibile.

Rispetto a temi di attualità politica, quale può essere secondo lei il ruolo dell’Italia nella Nato oggi, e quali devono essere le priorità strategiche che il nostro paese deve perseguire in ambito atlantico?

L’Italia ha sempre avuto un ruolo ben preciso all’interno della Nato ed è ancora oggi uno dei membri più importanti. Noi abbiamo sempre agito, e dobbiamo continuare a farlo, anche per rendere il Mediterraneo una priorità dell’Alleanza. È una nostra priorità strategica, centrale nella nostra politica estera, e dobbiamo fare in modo che lo diventi sempre di più anche per i nostri alleati. Nel corso degli ultimi anni il Mediterraneo era un po’ scomparso dai radar dell’Alleanza, poi anche in ragione della crisi in Siria e della presenza russa nell’area, le attenzioni dei nostri alleati sono aumentate. Noi dovremo fare in modo di tenere alta l’attenzione su tutto il fianco meridionale, perché come è evidente gli eventi recenti, le crisi, le emergenze, le minacce presenti in questa area, hanno dato ragione alla nostra insistenza per perorare la causa del Mediterraneo. Ovviamente però, all’interno di una grande organizzazione come la Nato, le nostre priorità strategiche possono diventare più forti, ed essere accolte tra gli Alleati, se non facciamo mancare la nostra solidarietà agli interessi comuni, cioè se agiamo come si deve fare all’interno di una “Alleanza”: Per questo, l’impegno speso negli anni recenti, anche in contesti come il Baltico, dove non abbiamo mai fatto mancare il nostro aiuto, ci ha indubbiamente rafforzati e soprattutto ha rafforzato le nostre richieste. Continuare a essere coerenti e mantenersi fedeli agli impegni presi dall’Alleanza e nell’Alleanza ci permette di rivendicare meglio anche quello che ci sta maggiormente a cuore.

Come valuta infine la prospettiva che si è aperta, in ambito europeo, sulla difesa comune e come Unione Europea e Nato possono interagire e collaborare, superando anche eventuali difficoltà o diffidenze presenti?

Certamente sono consapevole che esistano sia in ambito atlantico sia in ambito europeo delle diffidenze o delle gelosie reciproche, ma sono anche convinto che un forte pilastro europeo possa solo fare del bene alla Nato. Quello che serve, sia per sviluppare il progetto di Difesa europea sia per rafforzare i legami con la Nato, è una linea politica chiara, condivisa, unitaria, che permetta di rilanciare la collaborazione, la cooperazione e un dialogo costante e più forte. Che questo dialogo e collaborazione possano anche trasformarsi, come spesso è stato discusso anche in passato, in una divisione di compiti tra Nato e Ue è una possibilità, su cui, ripeto, è necessaria una linea politica chiara che definisca le priorità e gli interessi. È evidente, per esempio, che l’Unione europea può avere interessi prioritari e propri su aree o tematiche che magari interessano meno alla Nato. Pensiamo ad esempio all’Africa, un continente in “esplosione” con grandi problematiche che ci riguardano molto da vicino e anche con grandi potenzialità, che per gli europei è una necessaria priorità e su cui, magari, potremmo ritagliarci una nostra autonoma azione. Per farlo, per riuscire ad essere autonomi e sviluppare una nostra azione europea è tuttavia evidente che l’Ue deve essere in grado di farlo, acquisendo le capacità militari, operative, logistiche, necessarie a sostenere iniziative autonome, iniziative da non intendere in antitesi o in contrapposizione con la Nato, anzi, al contrario. Sviluppare la capacità di interagire e collaborare può servire anche a questo. Una Ue più forte su questo versante e, anche più autonoma, può fare sicuramente bene anche alla Nato e diventare finalmente il secondo pilastro dell’Alleanza, con piena e pari dignità.

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