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L’economia cinese nel 2018 ha fatto registrare la peggior crescita dal 1990: solo il 6,6 per cento. Lo dicono i dati ufficiali di Pechino, che prevedono anche un’ulteriore contrazione per il 2019 (attorno al 6 dice il governo, forse un po’ di più gli analisti più pessimisti). Per gli esperti, le ragioni principali di questo rallentamento della seconda economia più forte del mondo – che in proiezione nel 2030 dovrebbe diventare la prima, superando gli Stati Uniti – sono due e concatenate.

Primo, la necessità di contenere gli alti livelli di indebitamento, che hanno fatto perdere slancio un po’ a tutti i settori. Secondo, la guerra dei dazi contro l’America: le politiche sull’innalzamento delle tariffazioni commerciali decise dall’amministrazione, incastrandosi con le contingenze del Dragone, stanno portando verso i risultati voluti, che non sono soltanto l’adeguamento dello sbilancio commerciale (che ancora non c’è), ma hanno l’obiettivo più profondo di ostacolare la rincorsa di Pechino verso la vetta del mondo.

In linea con le previsioni degli economisti, la crescita cinese nel quarto trimestre dello scorso anno è rallentata al 6,4 per cento, e, come fa notare CNN Money, questo disturba i mercati perché la Cina è “un mercato su cui le imprese di tutto il mondo fanno affidamento per la crescita”. Però, in linea generale, il colpo non è stato superiore alle stime, e questo di per sé ha dato un minimo di sicurezza (doppia ragione: uno, vuol dire che le analisi in proiezione ancora funzionano; due, la situazione ha ancora una dimensione reversibile).

Pechino sta lavorando per tenere alta la crescita: ha annunciato misure extra a inizio anno dal valore di 193 miliardi di dollari – sgravi fiscali per le piccole e medie imprese, allentamento della politica monetaria, aumento degli investimenti sulle infrastrutture. Ma il contorno dei dati non è ottimale: il tasso di natalità è sceso (mancano 2 milioni di nuovi nati rispetto al 2017, livelli peggiori nel decennio); la disoccupazione è il leggero aumento (4,9 per cento a dicembre, contro il 4,8 a novembre); per la prima volta nell’ultimo ventennio sono calate le vendite delle automobili su base annuale; il dicembre scorso l’export mensile ha subìto un forte, sorprendente calo.

Probabile che su questi ultimi due fattori pesi lo scontro con gli Stati Uniti, ma il quadro generale dice che il rallentamento cinese non è soltanto colpa dello scontro commerciale.

Washington e Pechino stanno vivendo una nuova fase negoziale, attraverso la quale evitare – con un qualche genere di accordo – l’inasprimento delle misure commerciali americane previsto per l’inizio di marzo (quando le tariffe sulle esportazioni in Usa aumenteranno dal 10 al 25 per cento su 250 miliardi di prodotti cinesi).

Diffondendo i dati, il capo dell’Ufficio statistico governativo, Ning Jizhe, ha dichiarato: “La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sta influenzando la nostra economia, è vero, ma l’implicazione è gestibile”. Jizhe ha sottolineato che comunque ci sono segnali positivi, per esempio quelli che riguardano i consumi in netto incremento rispetto al 2017 (+18,6%, ma si puntava al 20) – la classe media cinese aumenta la propria forza socio-economica ed è una categoria composta ormai da 400 milioni di consumatori.

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