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Tra il 1989 e il 2008 ci siamo illusi che correndo dietro alla finanza e all’economia i problemi sociali del Paese si sarebbero risolti. Dopo il 2008 invece, quando le difficoltà non solo sono rimaste, ma si sono accentuate con lo scoppio della crisi economica, c’è stato un crollo delle aspettative e il malcontento, a fronte anche dell’inadeguatezza dell’approccio tecnoeconomico-finanziario, è cresciuto.

È nata così, da parte della società, una domanda di politica, un’urgenza di un qualcuno che si ponesse fra le persone e le banche, la finanza, l’Europa. E a rispondere a questa domanda è arrivata l’offerta che oggi tutti conosciamo e che va sotto il nome di populismo e sovranismo.

A partire dall’inizio del Novecento, e in particolar modo dopo la crisi del ‘29, si è iniziato a pensare a forme di protezione sociale e, più avanti ancora, a forme primitive di reddito di cittadinanza con l’intento di proteggere i ceti più deboli. Il ragionamento che sottostava a questi interventi era che, dato che l’economia aveva i suoi alti e bassi, se lo Stato non avesse protetto le fasce più deboli, la democrazia avrebbe potuto perdere i suoi equilibri come si era rischiato con la Grande depressione.

Poi, però, fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ci si è accorti che queste misure provocavano dei problemi di costi, di sperperi e, soprattutto, di deresponsabilizzazione delle persone. Si generava, insomma, un incentivo a sopravvivere con i soldi che passava lo Stato piuttosto che a cercare di reinserirsi nel circuito virtuoso del lavoro e dell’economia; si forniva una sorta di disincentivo all’impegno personale.

Inoltre, a un certo punto la politica ha capito che la distribuzione di risorse poteva essere un comodo strumento per ottenere consenso. Il problema, dunque, non era più solo il rischio di disincentivare le persone a lavorare, ma anche quello delle promesse facili da parte della classe politica come via preferenziale per la conquista di nuovi elettori.

Si è cominciato, così, a parlare di assistenzialismo, che però non può e non deve rappresentare un argomento sufficiente per non affrontare la questione delle politiche economiche contro la povertà e a sostegno dei ceti più deboli. La priorità di una democrazia rimane quella di proteggere i suoi cittadini.

Bisogna però fare in modo che questo discorso si sviluppi in maniera corretta, senza degenerazioni controproducenti. Le misure che probabilmente verranno adottate nel prossimo futuro sono sicuramente espansive, e questo è un bene. Credere che sia sufficiente spingere i consumi per generare crescita e sviluppo, però, è sbagliato. Oltre a dare risultati nel solo breve periodo, non considera che con il boom di acquisti all’estero e di beni importati, i consumi avvengono solo in minima parte nel circuito nazionale, dando un contributo relativo all’economia nazionale. Eppure, sarebbe forse bastato, pur perseguendo una strategia espansiva, pensare di investire e frammentare in maniera significativa gli investimenti pubblici, aiutando così in particolar modo le piccole e le micro imprese che generano la maggior parte dell’occupazione.

Ritengo, però, al contempo, sbagliato l’approccio di quanti, oggi, stanno gridando allo scandalo. Le politiche adottate negli scorsi anni, non sono state più fortunate di queste ultime. Anzi, hanno fatto forse lo stesso errore di quelle attuali, e cioè adottare una visuale di breve termine piuttosto che di medio-lungo periodo, come si dovrebbe in campo economico.

Dire con certezza quello che si potrebbe fare non è semplice. Quello che però è evidente è che in Italia, così come in altri Paesi, vigono due posizioni. La prima è quella delle élite e del cosiddetto establishment, che difende strenuamente gli assetti e le politiche economiche degli ultimi dieci anni senza però rendersi conto che il mondo è cambiato irreversibilmente. La seconda è di chi, pur avendo avuto la capacità di cogliere i profondi mutamenti che la società sta vivendo, ha scelto di adottare delle politiche che non solo rischiano di non risolvere i problemi, ma addirittura, presumendo di poterlo fare senza però averne contezza, li lascia in un certo senso al loro destino.

Manca oggi una terza parte, una proposta che colga i mutamenti della società, che prenda atto dell’inefficienza delle politiche economiche adottate sinora e che riconosca la redistribuzione della ricchezza come priorità, ma che sia al contempo consapevole che queste priorità vanno perseguite tenendo conto di una serie di vincoli e di incompatibilità oggettive. Questa terza posizione, ad oggi, è praticamente assente in tutto l’occidente.

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