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Quanti nei giorni scorsi, tra analisti e parlamentari, paventavano il “caos” Brexit staranno oggi pensando di aver centrato la previsione. Si è infatti tenuto ieri a Westminster l’atteso voto sul Withdrawal Agreement, come possibile ultimo atto su Brexit al termine di una ulteriore settimana di intensi negoziati tra governo Britannico e Commissione europea.

Si è giunti a questo nuovo voto dopo che la scorsa notte la premier Theresa May e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker avevano trovato un accordo, nel tentativo di risolvere il nodo del backstop al confine irlandese, sulla possibilità per il Regno Unito di avviare una controversia formale nei confronti dell’Ue se tentasse di mantenere il Regno Unito legato nel backstop indefinitamente. È stata poi definita una dichiarazione congiunta sul futuro rapporto tra Regno Unito e Unione europea con l’impegno reciproco a sostituire il backstop con una valida alternativa entro dicembre 2020.

Ma nonostante questi passi in avanti raggiunti sul filo di lana prima della seduta a Westminster, il Withdrawal Agreement è stato bocciato per la seconda volta, per 149 voti, tra cui 75 voti da parte di Conservatives contrari a questo accordo. La House of Commons ha quindi dato credito a quanto aveva dichiarato il procuratore generale Geoffrey Cox secondo cui queste modifiche non avrebbero comunque dato gli strumenti legali al Regno Unito per poter uscire unilateralmente dal backstop, pur limitando i rischi che questo si protraesse a tempo indefinito. Ma adesso sembra ancora più evidente come il punto non sia soltanto il meccanismo tecnico che regola la situazione del confine irlandese, ma che questo sia il terreno su cui si svolge un acceso confronto tra due diverse visioni sulle possibilità di crescita dell’economia britannica e sui suoi rapporti con l’Ue.

Da una parte la visione che fa leva sulle forti interrelazioni tra le parti, secondo cui un allontanamento troppo marcato dal Mercato Unico Europeo rappresenterebbe un problema per l’economia del Regno Unito, così come fronteggiare una Hard Brexit avrebbe immediate e notevoli ripercussioni negative per i cittadini e per le attività economiche. Con una stima ad opera di alcune tra le principali società di consulenza secondo cui per effetto di una uscita No-Deal l’economia britannica andrebbe incontro ad una sostanziale contrazione fino ad un 8% nei prossimi tre anni. Con il rischio di immediati problemi nella gestione delle dogane e nell’approvvigionamento delle scorte per alcune merci.

I sostenitori di questa visione si sono divisi, per ben due volte, tra chi ha votato a favore del Withdrawal Agreement, preferendolo allo scenario No-Deal, e chi invece a votato contro, nell’ipotesi che questa bocciatura possa portare fino ad un nuovo referendum o ad altre soluzioni soft-brexit o no-brexit. D’altra parte vi è invece la visione, cara ai fautori della Hard Brexit, secondo cui il Regno Unito avrebbe dei vantaggi nello slegare il più possibile la propria economia da quella europea, ponendosi anzi in concorrenza con questa nell’andare ad attrarre capitali ed investimenti da economie terze.

I sostenitori di questa visione affermano che gli scambi commerciali del Regno Unito negli ultimi anni sono cresciuti più velocemente con i Paesi con i quali interagisce con le regole del WTO, Cina e U.S.A. su tutti, e rilanciano le dichiarazioni rilasciate di recente dal presidente della Bank of England secondo cui grazie ai piani di emergenza messi in atto dal governo è possibile correggere la stima di contrazione dell’economia in caso di No Deal dall’8% ad un massimo del 3,5% in tre anni. E che questo trend sarebbe assorbita ed invertito nel medio periodo.

E proprio nelle scorse ore il governo di Sua Maestà ha annunciato che in caso di uscita No-Deal l’87 per cento dei beni scambiati sarebbe esentato dall’applicazione di tariffe e ha dato garanzie sul fatto che non introdurrebbe controlli ne richiederebbe dichiarazioni doganali per le merci che dalla Repubblica d’Irlanda entrano in Irlanda del Nord. Questa sarebbe una soluzione temporanea unilaterale in attesa di definire una soluzione definitiva. A questo punto è ancora tutto demandato alla House of Commons.

Oggi si terrà un nuovo voto con il quale i Comuni dovranno pronunciarsi sulla Hard Brexit. Se questa soluzione avesse la maggioranza, allora il 29 marzo il Regno Unito lascerebbe formalmente l’Ue senza un accordo tra Londra e Bruxelles. Se invece questa soluzione non dovesse passare, come al momento sembra probabile, per domani è in calendario un nuovo voto per richiedere ai Comuni se intendono prorogare la data termine per Brexit oltre il 29 marzo. Quest’ultimo voto lascia aperto il campo a diverse alternative. Se la proroga del termine venisse bocciata, allora si tornerebbe alla casella precedente con l’uscita senza accordo. Se invece la proroga venisse approvata si aprirebbero diversi scenari tutti ancora da verificare.

In primo luogo l’Ue dovrebbe concedere questa proroga, e al momento si parla di una proroga breve fino al 23 di maggio, data di inizio delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Poi bisognerà verificare per fare cosa verrebbe utilizzato questo extra-time, e le opzioni sul tavolo sono diverse.

Una possibilità e quella che proseguano le negoziazioni con l’Ue per cercare ulteriori modifiche al Withdrawal Agreement per poi sottoporlo ad un nuovo voto a Westminster. Si tratta di una soluzione complessa da immaginare a poche ore dalla seconda bocciatura dell’accordo, ma da non escludere. Sarebbe anche possibile una completa rinegoziazione dell’accordo su basi nuove, come ad esempio il modello Norvegia Plus, ovvero la permanenza del Regno Unito nello Spazio Economico Europeo che andrebbe legata in questo caso anche alla permanenza nell’unione doganale.

Vi è poi l’opzione, che avrebbe sostegni trasversali sia tra i Conservatives che nel Labour, di un nuovo referendum. Questo potrebbe esser consultivo e non vincolante, come avvenne nel 2016, oppure potrebbe essere immediatamente vincolante. Ai sensi del Political Parties, Election and Referendum Act del 2000, bisognerebbe dare tempo alla Commissione elettorale di stabilirne le regole e di definire il quesito elettorale. Gli esperti dell’University College London’s Constitution Unit affermano che un referendum non sarebbe possibile prima di 22 settimane, aprendo così la questione relativa alla partecipazione del Regno Unito alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che si terranno a maggio.

Resterebbe poi ancora in campo la possibilità di un’uscita No-Deal, e questo maggior tempo verrebbe impiegato da entrambe le parti per completare i piani e le azioni predisposte per ridurre gli effetti negativi causati dalla Hard Brexit. Alla luce delle dichiarazioni del leader del Labour Jeremy Corbyn, che è tornato a richiedere le elezioni generali, è possibile una nuova mozione di sfiducia alla premier Theresa May con conseguente voto a Westminster.

Si è, infine, parlato in queste ore di una mozione di censura alla premier promossa da parte degli stessi parlamentari Conservatives con l’intento di indurla a dimettersi. A soli 17 giorni dalla data stabilita per l’uscita del Regno Unito dall’ Unione europea la situazione è sempre più indefinita. Si riparte già oggi con il voto sulla Hard Brexit.

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