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La Uss Kearsarge, unità d’assalto anfibia americana che può trasportare oltre millecinquecento Marines, oltre che elicotteri, Osprey e F-35, sarebbe in arrivo nel Mediterraneo con lo scopo di guidare la copertura marittima al ritiro americano dalla Siria. Fonti tra i militari confermano, per primi al Wall Street Journal e al Washington Post, che le operazioni sono già iniziate. E danno supporto alla decisione annunciata dal presidente Donald Trump il 19 dicembre. È il genere di supporto necessario per una mossa che ha suscitato diverse polemiche, seguite da un comportamento non lineare dell’amministrazione che ha lasciato confusi gli alleati.

La Casa Bianca ha detto il 19 dicembre che l’uscita dal paese sarebbe stata completata in un mese, poi lo stesso presidente ha rimodulato: procederemo “slowly”, lentamente, spiegava un paio di giorni dopo. Servono almeno quattro mesi, dicono da sempre da tempo dal Pentagono — che in polemica con la decisione trumpiana ha subìto l’uscita del segretario alla Difesa, Jim Mattis e del capo dello staff.

Nella revisione subita nella prima settimana dopo il test pubblico, la richiesta del Pentagono sui tempi sembrava essere stato approvata, con una caledarizzazione sempre più sfumata mano a mano che passavano i giorni. Per ultimi a dare spiegazioni erano stati il consigliere alla Sicurezza nazionale, John Bolton, e il segretario di Stato, Mike Pompeo, entrambi impegnati in viaggi diversi nella regione, anche con lo scopo di rassicurare gli alleati sul senso profondo dell’uscita americana dalla Siria, dove la presenza non ha solo scopi anti-terrorismo, ma serve a tutelare gli equilibri in delicati bilanciamenti geopolitici che coinvolgono la Russia, la Cina, l’Iran, Israele, Turchia e Arabia Saudita.

I messi americani spiegavano che niente sarebbe cambiato nella sostanza delle cose: gli Stati Uniti avrebbero comunque tenuto il punto in Medio Oriente, e forse non avrebbero nemmeno lasciato la Siria, impegnati in quell’equilibrio di forza. Per questo le ultime dichiarazioni dei militari, che rappresentano uno dei centri di potere che ha alzato le maggiori resistenze interne alla decisione di Trump sul ritiro, sono sembrate sorprendenti. Altre fonti hanno poi tarato la questione col New York Times: non sono gli uomini sul terreno (quelle duemila forze speciali che danno la caccia al Califfo e che hanno in alcuni avamposti come al Tanf, nel sud, monitorano in forma diretta l’espansionismo siriano dell’Iran). Si stanno spostando alcuni equipaggiamenti non necessari verso l’Iraq — dove la presenza americana per ora non è in discussione.

I due funzionari del Pentagono che hanno parlato col Nyt hanno detto di voler fare chiarezza sulla confusione attuale. Hanno spiegato che nel prossimo futuro le truppe americane in Siria aumentaranno perché servirà dare protezione tattica al ritiro. Un’operazione che, dicono, dovrebbe ancora durare almeno sei mesi per essere completata (ma alla fine più che chiarezza hanno dato un altro numero: dopo i trenta giorni di Trump, e i 120 circolati successivamente, ora siamo a 180).

 

 

Come procede il (non) ritiro degli Usa dalla Siria?

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