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Due giorni fa il governo cinese ha annunciato che intende punire (con 38 diversi capi di imputazione) le aziende connazionali coinvolte in furti di proprietà intellettuale. Si tratta di una sorta di ovvietà, ma la dichiarazione pubblica ha un significato politico piuttosto sostanziale: Pechino sembra accettare una delle principali accuse avanzate da Washington. Gli americani infatti denunciano attività scorrette delle aziende cinesi, che hanno approfittato – e approfittano – di operazioni di spionaggio industriale per rubare progetti, idee e scavalcare proprietà intellettuali: slancia da cui spingere la propria economia.

Questo è uno dei tanti aspetti su cui poggia lo scontro strategico totale e globale tra Cina e Stati Uniti. L’uscita pubblica cinese è un passo considerevole – andrà valutato quanto sia un’operazione mediatica o invece sostanziale – anche perché Pechino ha sempre protetto certe situazioni, pure quando si è trattato di situazioni di massima delicatezza come la sottrazione di documenti super top secret americani riguardanti i caccia di ultima generazione F-35 e missili supersonici.

Un impegno cinese sull’argomento era stato messo in piedi già nel 2015, quando il presidente Xi Jinping, senza particolari ammissioni di responsabilità, aveva raggiunto una sorta di accordo di intenti con Barack Obama. L’intesa però non era andata troppo a largo: momentaneamente i furti s’erano ridotti, ma poi le cose erano di nuovo precipitate, e Washington è tornato ad attaccare la Cina. Sotto questo punto di vista, quello che sta facendo l’amministrazione Trump segue un solco già tracciato.

Il furto di proprietà intellettuale da parte delle società cinesi rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale e per la capacità delle compagnie americane di trasformare profitti, ha spiegato Robert Lighthizer, l’uomo che la Casa Bianca ha incaricato di gestire le trattative commerciali e guidare i negoziati rimessi in piedi con Pechino dopo l’ultimo incontro tra i due presidenti al G20. Per la Casa Bianca l’obiettivo dichiarato – al di là dei più sensibili e meno confessabili temi dello scontro strategico – è portare la Cina a rivedere le proprie pratiche attraverso riforme del modello di comportamento generale. E il programma governativo contro il furto di proprietà intellettuale va sotto quest’ottica.

Il governo cinese sostiene che da adesso in poi chi viola le regole sarà escluso dal finanziamento statale e potrebbe essere inserito in un database dei cattivi a cui potrebbero accedere anche gli investitori stranieri. “Il rilascio del promemoria, uno dei documenti più dettagliati sulla protezione intellettuale emessi dalla Cina, segna un ulteriore passo da parte della Cina per rafforzare la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e dimostra la sincerità della Cina nell’affrontare la preoccupazione americana sulla questione, potrebbe essere utile come parte delle discussioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, ma questa non è una reazione diretta alle pressioni degli Stati Uniti”, specifica Pechino – ma è evidente che tutto accade in una fase in cui Washington sta pressando tantissimo la Cina con una panoplia di azioni a 360 gradi.

I cinesi hanno negato anche lo scorso mese che il furto di proprietà intellettuale possa essere una pratica sostenuta dallo stato (attraverso la macchina dell’intelligence), ed è questa la grande questione sulla serietà di Pechino nel sostenere la campagna che sta pubblicizzando.

La Cina annuncia un programma per contenere il furto di proprietà intellettuale (come vuole Trump)

Due giorni fa il governo cinese ha annunciato che intende punire (con 38 diversi capi di imputazione) le aziende connazionali coinvolte in furti di proprietà intellettuale. Si tratta di una sorta di ovvietà, ma la dichiarazione pubblica ha un significato politico piuttosto sostanziale: Pechino sembra accettare una delle principali accuse avanzate da Washington. Gli americani infatti denunciano attività scorrette delle…

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