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Può il destino della Cina dipendere da Donald Trump? Sì. Anche la seconda economia mondiale non può certo fare a meno delle decisioni che vengono prese all’interno dello Studio Ovale. Il 2018 non è stato un bell’anno per il Dragone. Il Pil ha segnato una crescita del 6,6%, cifra che in Italia non si avrà mai, ma per gli standard cinesi si tratta del dato più basso dal 1990, cioè dalla fine del comunismo in gran parte del mondo. Pechino ha il fiatone dopo anni di crescita forsennata. Ora la domanda è: sarà possibile nei prossimi mesi ricaricarsi di ossigeno oppure dalla corsa si passerà alla camminata veloce? Gli esperti di Credit Suisse non hanno dubbi. Un rimbalzo dell’economia dopo un anno di fiato corto è possibile. Ma a una condizione: che il capo della Casa Bianca addolcisca, almeno un po’, la sua politica commerciale.

Il report della banca elvetica chiarisce le prospettive dell’ex Celeste Impero. “Con l’inizio dell’Anno del Maiale il peggio del rallentamento cinese potrebbe già essere alle nostre spalle e un rimbalzo parziale dell’attività industriale potrebbe avere luogo già dal primo trimestre dell’anno in corso”. Dunque, le potenzialità per un ritorno alla crescita in grande stile ci sono tutte. Ma c’è un ma, anzi due.

“Vanno dati due principali avvertimenti”, spiegano dal Credit Suisse. “Innanzitutto, un incremento o un rimbalzo sarebbe di natura ciclica. Da una prospettiva secolare, sosteniamo che la crescita economica cinese sia destinata a evidenziare un trend di rallentamento per i prossimi anni”. Tradotto, tornare a macinare Pil è possibile ma prima o poi si ritornerà inevitabilmente a una fase di flessione dell’economia. Quello che però rischia di azzerare ogni speranza di ripresa sono i rapporti con gli Stati Uniti e la loro amministrazione.

L’eventuale “arrivo e la durata di un rialzo dipendono innanzitutto dall’andamento delle negoziazioni commerciali tra Usa e Cina. La nostra analisi indica che il rallentamento dell’attività manifatturiera e delle importazioni cinesi nel quarto trimestre è stato sospinto da una combinazione di tre fattori: un ridimensionamento della domanda esterna, l’indebolimento della domanda interna e uno shock negativo sulla fiducia dei produttori cinesi a causa del potenziale rialzo dei dazi dal primo gennaio 2019 (la stretta, se non si troverà un accordo tra Washington e Pechino scatterà dal primo marzo, ndr)”. La paura dei dazi ha finito dunque per schiacciare domanda e offerta e se il presidente Usa non dovesse fare dietrofront, le speranze di un colpo di reni della Cina sarebbero pressoché zero.

“Le incertezze commerciali sono state l’elemento fondamentale che ha accentuato il rallentamento. I produttori cinesi hanno reagito a queste incertezze, in particolare alla minaccia di un incremento dei dazi, posticipando i rifornimenti delle scorte in ingresso, un’attività che normalmente viene effettuata a dicembre. Questo ritardo ha intensificato la contrazione delle importazioni cinesi. Un’implicazione immediata è che la reale portata del rallentamento nel comparto produttivo cinese verso fine 2018 si è attestata tra la stabilità suggerita dalla produzione industriale e la consistente contrazione implicita nelle importazioni. Di conseguenza, un parziale rimbalzo dell’attività manifatturiera potrebbe essere dietro l’angolo”. Bene, anzi no. Se un ipotetico e ancora lontano accordo commerciale tra Usa e Cina venisse meno, “un rimbalzo potrebbe scomparire con la stessa rapidità con cui si è manifestato”.

cinesi, cina

Perché il destino della Cina dipende dagli Stati Uniti. Report Credit Suisse

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