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Chi pensava che la Brexit fosse un affare per l’Italia dovrà ricredersi, almeno un po’. Il cosiddetto no deal, l’uscita senza un accordo dall’Unione in grado di garantire e salvaguardare i rapporti commerciali in essere, sarà qualcosa di potenzialmente traumatico per le imprese italiane, costrette a pagare un conto salato. Ne sono convinti al Centro Studi di Confindustria diretto da Andrea Montanino, tanto da diffondere in tarda mattinata un report sui possibili effetti dell’addio inglese sul tessuto industriale italiano. La parola d’ordine è incertezza, la quale si sa ha quasi sempre un costo per chi investe.

“La bocciatura dell’accordo sulla Brexit aumenta l’incertezza”, premette Confindustria e “ha un impatto immediato su sterlina e fiducia dei consumatori, che restano vicine ai minimi e tiene giù anche gli investimenti, rischiando di compromettere le prospettive di crescita dell’economia Uk nel medio e lungo periodo. Ne risentiranno le imprese esportatrici italiane che rischiano di vedere ridotti i volumi di beni rivolti al mercato britannico, circa 23 miliardi”. I comparti più colpiti risulterebbero secondo Confindustria, le bevande, i vini e l’agrifood.

Ad oggi infatti il Regno Unito attrae circa il 12% dell’export italiano complessivo dal settore bevande, pari a 1,1 miliardi di dollari correnti nel 2017; inoltre, se si applicassero i regolamenti tariffari tra Ue e resto del mondo, “le bevande sarebbero tra i beni sottoposti a barriere tariffarie più elevate (nell’ordine del 19%)”. I regolamenti vigenti nel settore, poi, hanno un alto grado di armonizzazione con quelli europei, quindi un eventuale cambiamento di rotta potrebbe ridurre ulteriormente il livello degli scambi.

Ma c’è il rovescio della medaglia. Secondo gli esperti di Viale dell’Astronomia infatti “la prolungata incertezza potrebbe far allontanare alcune multinazionali dal territorio britannico, costituendo un’opportunità per altri Paesi europei: si stima che per l’Italia gli investimenti diretti esteri potenziali extra potrebbero generare un aumento del Pil di 5,9 miliardi annui, ovvero lo 0,4%”. Bene, anzi no. “Ciò non è comunque compensativo di rischi ed effetti negativi legati alla Brexit”.

Il fatto è che le imprese italiane ed europee si trovano a dover fronteggiare due tipologie di ostacoli: prima di tutto i problemi per le multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come base logistica o che comunque hanno delle attività sul territorio britannico le quali però operano sul territorio europeo. In questo caso il rischio è che le stesse società potrebbero dover rivedere alcune scelte organizzative per adattarsi al mutato contesto. In seconda battuta, alcuni rischi legati alle molte multinazionali che si appoggiano alla piazza di Londra  per la gestione dei servizi finanziari: un’uscita senza accordo potrebbe comportare aumenti del costo del credito per le imprese.

Non è finita qui, c’è un ultimo rischio, forse quello più importante: il debito. Tutto parte dalla frammentazione dei capitali che vengono attualmente concentrati sulla piazza di riferimento londinese. In questo caso il pericolo è quello di un aumento della bolletta da servizi finanziari e questo a sua volta “genera incertezza sulla capacità dell’Italia, come di altri Paesi europei, di continuare ad allocare il proprio debito in maniera efficiente e con gli stessi costi” in termini di interessi sulle emissioni.

Se non si riuscisse a impedire un no deal, “l’aumento dei tassi di rendimento ricadrebbe da una parte su imprese e famiglie e dall’altra sulle banche, con costi più elevati per avere ed erogare credito. Le banche della City sono state sinora responsabili per la vendita della fetta più consistente del debito europeo. La Gran Bretagna in qualche misura rappresenta la banca di investimento europea, visto che anche una parte molto consistente di obbligazioni e azioni emesse nell’Ue coinvolge istituzioni finanziarie basate nel Regno Unito”.

 

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