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Myrta Merlino, uno dei volti di punta di La7, è scesa in campo al fianco dell’Unicef. La giornalista, autrice e conduttrice del contenitore mattutino L’aria che tira è stata nominata Goodwill Ambassador e le è stato conferito il compito importante di sensibilizzare “l’opinione pubblica sui problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, testimoniando e promuovendo, attraverso il suo impegno, la solidarietà e il sostegno alle iniziative dell’Unicef per dare voce ai più indifesi della società, le bambine e i bambini, così da raggiungerli tutti, nessuno escluso”, come si legge sull’atto di nomina. Un impegno non di poco conto per chi ogni giorno entra nelle case degli italiani e li accompagna, affrontando temi di carattere politico e sociale senza concedersi leggerezze, all’ora di pranzo. Del nuovo ingaggio e degli obiettivi futuri ne abbiamo parlato proprio con Merlino, fresca di nomina.

Che emozioni le dà essere oggi ambasciatrice Unicef? 

Ci ho molto riflettuto sulla possibilità di accettare o meno questa nomina, perché non mi sentivo all’altezza. Non posso muovermi molto da Roma, avendo un programma quotidiano, fare le missioni per me può essere complicato.

E cosa le ha fatto cambiare idea? 

Mi sono convinta leggendo quest’ultimo rapporto Unicef, che ho presentato proprio durante la mia nomina, sulle violenze sessuali ai danni non solo delle donne e delle ragazzine ma anche ai danni dei bambini e degli uomini. C’è una coltre di indifferenza su questa vicenda, perciò tutte le volte che se ne può parlare se ne deve parlare. Chi fa il mio mestiere e ha la visibilità che ho io, parlando ogni giorno a centinaia di migliaia di persone, ha il dovere di dire la sua e di esserci. Perciò da un lato è un onore, dall’altro la sento come una grande responsabilità perché mi rendo conto che è un tema difficilissimo su cui c’è un desiderio di rimozione molto forte sia da parte di chi ha creato una narrazione contraria, sia da parte delle persone normali. Nessuno ha voglia di vedere questo orrore perché è un orrore che chiede di mettersi in discussione. È veramente più facile rimuovere che affrontarlo. Io per prima mi metto in discussione, per molto tempo pur sapendo che succedevano cose terribili molto vicine a noi ha continuato ad agire come se nulla fosse.

Quest’anno a vincere il premio di foto più bella dell’anno del World Press Photo è stata un’immagine che ritrae una bambina piangere mentre la mamma, una migrante, viene controllata ai confini con il Messico. Secondo lei cosa si può fare, sia a livello internazionale che interno, per coniugare il necessario controllo delle frontiere con l’altrettanto necessaria tutela dell’infanzia? 

E’ una foto bellissima. Quello che Unicef fa, è molto importante. Pensiamo che ora, mentre io e lei stiamo parlando, ci sono 500mila bambini in Libia che vivono in zone colpite dal conflitto a Tripoli e nella zona della Libia occidentale. L’Unicef ha predisposto subito dei presidi, ha distribuito pacchi di cibo, di vestiti, di prodotti per l’igiene personale. Queste grandi organizzazioni possono entrare con canali privilegiati in questi contesti e aiutare. Questo è un tema: sostenere le organizzazioni che fanno questo lavoro da molto tempo e che hanno come primo obiettivo l’infanzia. Per quello che riguarda gli Stati io credo che tutte le volte che ci sono minori, accompagnati o meno, in situazioni di difficoltà ai nostri confini o ai confini del nord, perché io mi ricordo, orribilmente, quello che è successo alla frontiera di Bardonecchia, quella donna incinta rimandata indietro dalla Francia e morta a Torino, ecco tutte le volte che c’è di mezzo l’infanzia, si potrebbe fare una sorta di accorto, di grande moratoria per garantire corridoi privilegiati.

Questo servirebbe anche pensando, in prospettiva, a far crescere adulti più consapevoli?

Certo. I bambini sono la parte più indifesa del mondo ma sono anche il nostro futuro. Facciamoci una domanda, quando il mondo sarà fatto dai bambini che hanno subito i respingimenti, le violenze, l’odio, gli abusi che mondo sarà? Sarà un mondo peggiore, quello in cui vivranno i miei figli sarà un mondo peggiore. Quei bambini, se hanno introiettato solo odio e rifiuto non saranno persone in grado di fare del bene. Aiutare quei bambini vuol dire anche costruire un mondo migliore. C’è anche una questione, tra virgolette, egoistica. Il bambino che non ha ricevuto aiuto è un adulto che rischia di diventare una bomba ad orologeria. Basti pensare a quello che è successo nelle banlieue parigine, noi abbiamo visto dopo tanti anni quello che ha prodotto l’esclusione e la ghettizzazione delle banlieue. I grandi psicologi ci insegnano che chi subisce violenze e cattiverie può rielaborale nel bene, per far sì che nessuno più subisca angherie, ma può rielaborarlo anche in maniera negativa, volendo fare agli altri quello che si è subito.

Quindi da un lato, livello internazionale, una risposta possono essere i corridoi umanitari. Dall’altro, per i bambini che sono già sul territorio nazionale, una risposta può essere una maggiore integrazione. 

I giovani che arrivano feriti, da ogni punto di vista, dobbiamo riuscire ad aiutarli, a curarli e a far tornare loro un po’ di speranza nella vita perché sono l’umanità di domani.

A proposito di ragazzini e di futuro venerdì arriva a Roma Greta Thunberg.

A me hanno molto colpito le tante critiche a Greta, mi ha colpito soprattutto la voglia di ridicolizzarla. Io non so come sia lei o se dietro ci siano degli adulti. A pensarci bene importa veramente poco perché per me Greta è una ragazzina di una nuova generazione che guarda il mondo con occhi nuovi e che è riuscita a mobilitare i ragazzini della sua stessa età. È pieno il mondo di grandi climatologi, esperti e premi Nobel, eppure lei è riuscita a fare quello che gli esperti non sono riusciti a fare, mobilitare una generazione così allergica all’impegno politico e sociale. Questo è positivo a prescindere dal ruolo svolto dagli adulti in questa vicenda. Quello che mi interessa è che abbiamo visto una generazione, spesso senza voce, muoversi e scendere in piazza. Non importa che tanti di loro non avessero conoscenze approfondite, ma erano lì, erano in piazza, alla fine della manifestazione qualcosa in più l’avranno imparata. Se i ragazzi si mobiliano è sempre un buon segnale. Poi che ci sia bisogno di più consapevolezza è vero ma se una ragazzina come Greta li sveglia per me è una bella notizia.

Greta è una ragazzina degli anni 2000 che riesce a fare qualcosa di grandioso coinvolgendo i suoi coetanei. Cosa ci dice questo di una generazione troppo spesso additata per essere concentrata solo a guardare il proprio ombelico? 

Prima di tutto i ragazzini dell’età di Greta sono molto globali, mia figlia attraverso i social è collegata con il mondo e informata su tutto. Per me, essere collegata col mondo alla sua età, era molto più complicato. Loro non hanno filtri, non hanno bisogno di grandi strumenti. Dopo di che bisogna evitare che il cellulare isoli i nostri ragazzi, i social sono strumenti e come tali vanno usati. E sono usati bene se fanno da cassa di risonanza per messaggi come quello di Greta, male se portano alla diffusione di un gioco pericolosissimo come il Blue Whale.

Cambiamo argomento. Notre Dame brucia. Per quanto tempo porteremo dentro di noi questa immagine? 

Molto, come l’11 settembre. Mi veniva da piangere quando mi è arrivata l’immagine della guglia in fiamme, non ci potevo credere. Però c’è del buono anche qui. Ciò che mi ha fatto molto riflettere è che tutti noi quando abbiamo visto Notre Dame in quelle condizioni abbiamo pensato che fosse una cosa che ci riguardava. Abbiamo sentito che quella grande cattedrale che bruciava era una parte di noi e della nostra comune identità europea. L’identità europea c’è ed è composta da persone come noi.

Quanta indifferenza sulle violenze ai bambini. Myrta Merlino nuova ambasciatrice Unicef

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