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Il sentimento di appartenenza alla patria si misura sulla storia di una nazione; e in termini storici centocinquanta anni (circa) fanno dell’Italia una nazione giovane rispetto a gran parte dei Paesi europei, come Francia, Spagna, Russia, Gran Bretagna, che prima di convertirsi in nazioni hanno avuto alle spalle secoli come Stati assoluti. Anche la Germania va compresa in questo elenco, anche se il processo di unificazione tra i principi tedeschi si realizza contemporaneamente con quello italiano, nella seconda metà del XIX secolo. La Germania è erede della grande Prussia, egemone sui piccoli regni che la circondano tutti di lingua e cultura tedesche, come tedeschi sono i regnanti.

Diverso il panorama dell’Italia, dove non sono di lingua e di cultura italiana neppure i sovrani del Piemonte sabaudo che procedono alla costruzione della nazione; una costruzione dall’alto, quasi una conquista da parte di una potenza straniera che potrebbe essere accomunata a quelle del passato, se non fosse per la rilevanza ormai acquistata dall’idea di nazione nell’Europa del XIX secolo.

L’“invenzione della patria” è un concetto ricorrente nel libro di Christopher Duggan, La forza del destino (Laterza 2007), che individua nel mito dell’italianità il fondamento alla costruzione dell’Italia unita: la nazione dunque come mito, inseguito dagli italiani borghesi e aristocratici colti e istruiti, minoranza in un Paese povero, arretrato, contadino, a grande maggioranza analfabeta e cattolico.

Qui, in questo Paese, l’ideale nazionale ha ben scarsa eco, mentre ha presa la predicazione della Chiesa contro il nuovo Stato italiano usurpatore, e soprattutto affascina le masse il nuovo vangelo socialista che nel suo appello “proletari di tutti il mondo unitevi” non è certo un viatico alla formazione di una coscienza nazionale.

Con queste premesse è evidente come la questione della “nazionalizzazione delle masse” rimanga un problema centrale nell’esistenza dell’Italia per i successivi cent’anni dall’unificazione. Naturalmente dal 1861 al 1961 si fanno dei passi avanti per ricomporre il conflitto con il papato che si può considerare sanato nel 1929 con i Patti Lateranensi e il Concordato.

Ben più difficile però è affrontare la frattura che divide la nazione borghese dall’anti-nazione proletaria, cioè una contrapposizione classista, destinata a pesare nella vita politica e istituzionale dell’Italia. Certo, alla lenta diffusione di un sentimento patriottico concorrono la forte spinta all’istruzione e i processi di sviluppo economico che ampliano i settori della piccola borghesia urbana; ma non è casuale che al riconoscimento di una comune identità nazionale si arrivi solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’Italia si trasforma in una Repubblica democratica.

La forzata italianizzazione nel ventennio della dittatura fascista ha naturalmente preparato il terreno, anche se proprio il carattere coercitivo della propaganda impostata sui temi della grandezza e della potenza, legati alla politica di guerre del duce, finisce per rivelarsi un boomerang una volta caduta la dittatura. Lo testimonia la demonizzazione vera e propria della parola “patria”, che per anni e anni risuona quasi esclusivamente nel linguaggio dei neofascisti.

Lo stesso vale per il tricolore e per l’inno nazionale, che solo in occasione delle vittorie sportive nelle gare internazionali sembrano scaldare il cuore degli italiani. Da questo punto di vista, però, proprio i Mondiali in Spagna del 1982 segnano un vero e proprio momento di svolta perché, amplificato dal nuovo mondo della comunicazione, il patriottismo dei tifosi contagia la maggioranza degli italiani.

Può apparire paradossale, ma proprio negli anni Ottanta, a negare i simboli nazionali, sostituiti da bandiere (il drappo verde), da riti di fondazione e da culture alternative (l’ampolla con l’acqua del Po, la discendenza longobarda, ecc.) e a chiedere persino la secessione dall’Italia delle regioni del nord, è il movimento leghista che oggi si fa paladino di un sovranismo molto simile al più sguaiato nazionalismo del periodo fascista.

Una mutazione così radicale risponde alla strategia politica di Matteo Salvini, nuovo leader della Lega, deciso a cercare consensi nell’intero territorio nazionale, ma imprime sul patriottismo un marchio strumentale e partigiano, col rischio di produrre nuovamente una frattura, non più di classe, certo, ma di sicuro una profonda divisione culturale tra italiani, proprio sul tema così delicato della nazionalizzazione.

Al di là dei contenuti xenofobi e razzisti presenti nel nazionalismo leghista – e non è poco – colpisce la nuova contrapposizione che Salvini intende disegnare tra europeisti e nazionalisti, con evidente distorsione di un ideale europeista non certo antagonista ai sentimenti di appartenenza a una nazione, intesa nel suo significato più ampio.

(Articolo pubblicato sul numero di Formiche numero 138, luglio 2018)

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