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Non c’è nulla di più intimo del vivere il dolore. Decidere se e come condividere la propria sofferenza non può che essere un atto di assoluta autonomia. Nel momento in cui, però, si fa di una personalissima battaglia per la vita un manifesto pubblico, se ne devono accettare le conseguenze. Nessuna persona sana di mente potrebbe stigmatizzare il coraggio, l’entusiasmo, la forza di Nadia Toffa, la sua debordante e commovente voglia di vivere. Al contempo, però, nessuno può in coscienza meravigliarsi dell’ondata emotiva provocata dal suo accostamento ‘cancro’-‘dono’. Per quanto mi riguarda, non riesco neppure ad avvicinare mentalmente i due sostantivi. Mi è costato fatica anche solo scriverlo, mi provoca un’immediata repulsione e non credo di dover spiegare perché. Questa, però, è la mia reazione, è il mio modo di rapportarmi al dolore e alla sofferenza, del tutto diverso da quello della Toffa. Non c’è un metodo giusto e uno sbagliato, a meno di non volersi ergere a censori.

Eccoci, così, al punto dolente della nostra società-social: quello che dovrebbe essere il terreno per eccellenza della condivisione, della convivenza e del confronto (civile) si va inesorabilmente trasformando in un’arena. Lì dove dovremmo coltivare il massimo rispetto per le opinioni altrui, ci stiamo involvendo in accusatori senza pietà. Se Nadia Toffa avesse ‘solo’ pubblicato il suo libro e svolto la consueta e semiclandestina attività promozionale, non sarebbe accaduto nulla. E’ bastato un tweet, invece, per scatenare l’inferno.
Prendiamone atto, mettiamoci all’opera per limitare questa deriva e cerchiamo di non alimentarla. Se continueremo a usare i social come una clava, non potremo lamentarci del male che ci farà prenderla in testa. Nel momento in cui neppure sulla lotta per la vita riusciamo a trovare un minimo denominatore comune, è lecito domandarsi quale sia il grado di responsabilità di tutti noi in questa degenerazione.

Nadia Toffa ha scelto un tweet, per sostenere la sua battaglia. Credo che i 280 caratteri disponibili non siano neppure lontanamente sufficienti ad affrontare un tema del genere, ma se accettiamo di dibattere in quella piattaforma, dobbiamo rispettarne le regole e saper argomentare, in modo sensato, in un tweet. Rispettando le eterne regole della buona educazione e civile convivenza. Tutto il resto diventa sciacallaggio acchiappa-click, la faccia più brutta – fatemi dire, selvaggia – della società-social.

toffa

Nadia Toffa e la faccia più brutta della società-social

Non c’è nulla di più intimo del vivere il dolore. Decidere se e come condividere la propria sofferenza non può che essere un atto di assoluta autonomia. Nel momento in cui, però, si fa di una personalissima battaglia per la vita un manifesto pubblico, se ne devono accettare le conseguenze. Nessuna persona sana di mente potrebbe stigmatizzare il coraggio, l’entusiasmo,…

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