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Due giorni fa la Germania ha approvato una nuova spedizione di armi all’Arabia Saudita, dopo aver detto che avrebbe interrotto le vendite di armi ai paesi coinvolti nella guerra in Yemen. È stato il ministro dell’Economia, Peter Altmaier, a comunicare ai legislatori che il governo aveva approvato l’invio di sistemi di puntamento per l’artiglieria.

I tedeschi, quinti esportatori di armi al mondo secondo l’ultimo report Sipri, da marzo avevano sospeso le consegne verso Riad, finito in mezzo a una burrasca mediatica internazionale da quando nel 2015 è entrato in guerra per difendere lo Yemen dall’avanzata dei ribelli indipendentisti del Nord, gli Houthi – una guerra che, visti alcuni legami tra i nordisti e l’Iran, gli analisti considerano un tavolo di confronto militare indiretto con l’odiata Teheran.

La missione saudita su suolo yemenita, sostenuta da un blocco di paesi alleati che si è mosso dal Golfo e dall’area Mena, non sta andando bene perché i soldati del Regno non sono forti, preparati, motivati, nonostante dispongano di una delle forze armate più all’avanguardia. Tecnologie militari comprate soprattutto in Occidente: e sono queste a essere finite sotto polemica, perché sono state più volte impiegate in modo indiscriminato durante le operazioni armate i Yemen. Per esempio, il 9 agosto una bomba è piombata (per errore o foga non è chiaro, anche se i sauditi hanno ammesso pubblicamente le colpe) su uno scuolabus nel governatorato di Saada, nel Nord dello Yemen, uccidendo una quarantina di bambini: s’è scoperto rapidamente che l’ordigno era un Mk82 americano, bomba a guida laser di cui gli Stati Uniti hanno approvato nel corso degli anni diversi stock di vendita.

Non era la prima volta: sono stati colpiti diversi altri obiettivi civili in questi tre anni, tra cui un funerale causando la morte di oltre 150 persone (non ribelli). Era l’ottobre del 2016, l’allora presidente americano Barack Obama stoppò la vendita di Mk82 ai sauditi dicendosi preoccupato dei diritti umani: il bando è stato poi sbloccato dall’amministrazione Trump, nel marzo del 2017, su provvedimento dell’ex segretario di Stato, Rex Tillerson. Da molto tempo è noto che gli americani e i francesi collaborano con i sauditi per quel che riguarda l’individuazione di alcuni bersagli in Yemen, tramite intelligence e immagini satellitari, ma questo genere di cooperazione è tenuto su un canale di basso profilo per evitare ulteriori polemiche.

Pochi giorni fa anche il governo spagnolo ha deciso su un invio di armi ai sauditi: 400 bombe a guida laser su cui la ministro della Difesa, Margarita Robles, del Psoe, aveva detto “è una pratica in revisione” – pensando a uno stop – appena due giorni prima dell’approvazione definitiva della consegna. È stato ministro degli Esteri, Josep Borrell (socialisti catalani, parte del Psoe), a dichiarare in un’intervista radiofonica su Onda Cero che il suo ministero non ha trovato “alcuna irregolarità per impedire” la vendita: i missili saranno consegnati “per onorare i nostri impegni”, ha detto Borrell riferendosi a un contratto del 2015, firmato dal precedente governo Rajoy, con i sauditi che hanno già pagato i 9,2 milioni di euro pattuiti.

Aliquota minima rispetto ai 270 milioni in totale che la Spagna ha esportato in armi in Arabia Saudita nel 2017, per questo Robles pensava a una sospensione: ma la questione non era il prezzo. Riad non vuole crearsi problemi di carattere ideologico, non vuole finire in mezzo a questioni che riguardano il rispetto dei diritti, non vuole precedenti spiacevoli. Soprattutto in una fase delicata in cui il nuovo corso sta spingendo il regno a livello globale, soffrendo nel Golfo una crisi col Qatar su cui ancora non s’è creata stabilità – Doha sta usando anche pressioni sul campo dei diritti per attività di rappresaglia su Riad.

Le autorità saudite avevano preventivamente informato la Spagna che se la vendita fosse stata interrotta, altri contratti sarebbero stati a rischio, compreso l’acquisto di cinque navi da guerra di fabbricazione spagnola per un valore che si aggira intorno ai due  miliardi di euro – i lavoratori del cantiere navale Navantia, con sede a Cadice, dove il contratto rappresenta posti di lavoro per seimila persone, avevano organizzato proteste pubbliche. Non solo, c’era la questione del treno superveloce per la Mecca e della nuova metropolitana di Riad, dove aziende spagnole sono coinvolte: altri contratti che rischiavano di saltare.

Appena entrata in carica a giugno, Robles ha subito avanzato preoccupazioni che le bombe fatte in Spagna potessero essere utilizzate in Yemen ed essere protagoniste tragiche come le Mk82. Alla domanda sulla possibilità che i missili spagnoli possano essere usati nello Yemen, invece, il ministro degli esteri Borrell ha detto che si tratta di armi ad alta precisione che possono colpire il bersaglio senza causare danni collaterali.

In Italia è successo qualcosa di molto simile a quanto accaduto a Madrid. La ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha scritto quattro giorni fa su Facebook che “davanti alle immagini di quel che accade in Yemen ormai da diversi anni, non posso restare in silenzio. Se lo facessi, sarei un’ipocrita. Ecco perché ho chiesto un resoconto dell’export, o del transito (come rivelato in passato da alcuni organi di stampa e trasmissioni televisive, che ringrazio) di bombe o altri armamenti dall’Italia all’Arabia Saudita”.

La questione è stata affrontata pubblicamente come in Spagna, con il sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, che ha risposto via Twitter (è l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, Uama, della Farnesina ad occuparsi del dossier, per questo Picchi è intervenuto; ndr). Il “processo autorizzativo italiano per export di materiali difesa con Arabia Saudita è rigoroso e coinvolge pienamente ministero Difesa. Se cambia indirizzo politico, governo sia consapevole di ogni conseguenza negativa occupazionale e commerciale.”, ha spiegato Picchi. Chiosa: “Chi vuole nuove norme su export di materiali di armamento presenti proposte in parlamento e non chatti sui social. Altrimenti è abbaiare alla luna”.

La questione della vendita di armi italiane allo Yemen è una long standing del Movimento 5 Stelle: a dicembre del 2015, fu presentata un’interrogazione identica sia al Senato, con primo firmatario Vincenzo Santangelo, che alla Camera, con Luca Frusone come proponente, per ricevere chiarimenti, in mezzo alle accuse contro il governo del momento. “C’è ipocrisia intorno alla gestione della Difesa italiana: è inconcepibile che si vendano armi a un Paese impegnato nel conflitto in Yemen, mandando poi aiuti umanitari alla popolazione dello stesso Paese. Ma di cosa stiamo parlando?”, diceva Santangelo, ai tempi  capogruppo dei 5 Stelle nella commissione Difesa del Senato (ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla Democrazia diretta).

Il M5S, grazie a una visura camerale sosteneva di avere scoperto che la società, produttrice delle bombe, la Rwm Italia Spa, è di proprietà della tedesca Rheinmetall, ma con sede a Ghedi, in provincia di Brescia, e con uno stabilimento in Domusnovas, nel cagliaritano. Una rivelazione che incalzava omissioni del governo Pd di tre anni fa.

C’è la Sardegna tra i motivi della dialettica romana? Nella regione il M5S è andato sopra al 40 per cento  nelle ultime politiche, ma c’è anche un ruolo del Qatar, che ha forti penetrazioni nel sistema Costa Smeralda, nella compagnia aerea Meridiana o in strutture pubbliche nevralgiche come l’ospedale Mater Olbia (finanziato dalla Qatar Foundation). Potrebbero esserci state pressioni da Doha, indirizzate verso la Sardegna, col fine di giocare un ruolo anti-sauditi su un argomento che ha interessato l’opinione tanto pubblica italiana quanto quella politica come le armi a Riad?

 

 

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