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Dopo giorni di intenso dibattito politico, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il testo del decreto dignità che giungerà, non senza forti polemiche, all’esame del Parlamento.

Per capire il percorso di trasformazione del mondo del lavoro che ha condotto alla scelta di produrre un decreto annunciato come arma vincente nella lotta al precariato, bisogna ripercorrere le tappe della faticosa e faticata evoluzione dei contratti a termine.

Il primo sostanziale intervento legislativo, post codice civile, relativo al contratto di lavoro a tempo determinato, risale alla Legge 263/1962, la quale, per la prima volta, ha provveduto ad introdurre un numerus clausus di causali tali da legittimare l’apposizione di un termine a questa tipologia contrattuale.

Bisognerà attendere quasi 40 anni per vedere alla luce rilevanti modifiche in materia; il riferimento, in particolare, è al d.lgs. 368/2001, il quale, richiedendo la sussistenza di una sola causa giustificatrice per la validità dell’apposizione del termine al contratto, segna il punto di partenza per il raggiungimento della c.d. flessibilità. I successivi interventi legislativi, infatti, seguono un percorso che parrebbe finalizzato al conseguimento della completa liberalizzazione delle assunzioni con contratti a termine.

È importante ricordare, a tal riguardo, la legge 92/2012, nota come riforma Fornero, la quale ha introdotto una prima vera deroga (limitata alle ipotesi di primo rapporto di lavoro a tempo determinato con termine inferiore ai dodici mesi) al principio di causalità che fino a quel momento aveva rappresentato, seppur con intensità decrescente, il punto cardine di questa tipologia contrattuale.

A pochi anni di distanza è stato emanato il D.L. 34/2014, che costituisce il primo atto del Jobs-Act, con cui si raggiunge definitivamente la tanto agognata “acausalità”, la quale da mera eccezione assurge, finalmente, ad essere regola.
L’ultimo intervento legislativo improntato sulla base di questi principi è il d.lgs. 81/2015, rientrante anch’esso nelle disposizioni relative al Jobs-Act, con il quale si è intervenuti al fine di “riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo”.

Questo excursus storico-normativo è finalizzato ad acquisire una visione generale del contesto in cui il decreto Dignità si andrà ad innestare; appare, infatti, evidente che con l’emanazione del provvedimento di cui si tratta, si realizzerà una radicale inversione di rotta nel tentativo di ripristinare una, a quanto pare, eclissata dignità dei lavoratori.

Novità principale del decreto Dignità, annunciata con orgoglio da parte della compagine politica che ha intensamente desiderato e prodotto questo intervento normativo, è il ritorno alla causalità nei contratti a termine, con l’esclusione dei contratti stagionali. Ed infatti, a tenore dell’articolo 1 della bozza presentata in Parlamento, si evince a chiare lettere che per i contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi si richiederà la sussistenza di specifiche necessità. Si tratta, in particolare, di esigenze: temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Non solo. Il limite di durata, non superabile, del contratto a termine si riduce da 36 a 24 mesi, con un aumento del costo contributivo dello 0,5% ad ogni rinnovo, mentre diminuisce il numero massimo di proroghe, passando da 5 a 4.

Ulteriore modifica riguarda il numero di mensilità riconosciute a titolo indennitario in caso di licenziamento ingiustificato, che passeranno da un minimo di quattro ad un massimo di ventisei, al riconoscimento, in favore del lavoratore, di un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità.

Alla luce di queste indicazioni, è inevitabile interrogarsi riguardo l’opportunità della riforma proposta rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, che richiede invece una sempre maggiore flessibilità.

I timori sviluppatisi a livello nazionale, concretizzati poi all’interno del decreto Dignità, non permettono in realtà la piena realizzazione del percorso, seguito fino ad ora, teso al raggiungimento di una normativa lavoristica capace di permeare nel nuovo contesto sociale creatosi dopo la crisi del 2008 e, quindi, di reagire correttamente e con risultati positivi al mutare delle esigenze del mercato.

La riprova di quanto sostenuto è riscontrabile nella relazione al decreto Dignità, prodotta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nella quale non possono che leggersi dati allarmanti. Si prevede, infatti, una diminuzione di 80.000 occupati in dieci anni, nello specifico, l’occupazione si ridurrà di 8.000 unità all’anno fino al 2028.

A tal riguardo, è sicuramente opportuno ricordare che, a mente dell’articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Non è dato quindi comprendere la dignità di chi si voglia ripristinare attraverso questo intervento normativo dato che il primo, nonché più rilevante, risultato sarà la diminuzione sostanziale dell’occupazione.

Per avanzare sul piano delle politiche sociali bisognerebbe impegnarsi nell’ottica di obiettivi strategici di sistemazione e riconciliazione della normativa, senza ostacolarne il progresso con interventi anacronistici, scongiurando, in questo modo, un’esplosiva collisione tra gli interessi imprenditoriali e quelli dei lavoratori.

Per concludere, alla luce delle considerazione fatte, sarebbe forse appropriato modificare il titolo di questa dissertazione.

Esso è ispirato alla celeberrima opera di Paul Gauguin che rappresenta l’allegoria degli stadi dell’evoluzione dell’essere umano e l’incertezza per il destino ignoto; ma, considerando che attraverso questo intervento normativo il primo risultato raggiunto sarà, probabilmente, l’involuzione del mercato del lavoro, parrebbe più opportuno riformulare il quesito chiedendoci: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove ritorniamo?”.

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