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Bene nella forma e benissimo nella sostanza. Così, Roberto Menotti, vice direttore di Aspenia, ha commentato le parole del ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, sui tanti dossier che l’Italia è chiamata ad approcciare in questi giorni. Dal Summit Nato alle questioni commerciali, il governo dovrà muoversi con la pazienza e la cautela che il numero uno della Farnesina garantisce, a dispetto di “un atteggiamento piuttosto vivace” di altri ministri che rischia di essere controproducente “nell’era Trump, quella della personalizzazione delle relazioni internazionali”. Con Menotti abbiamo parlato dei diversi punti della comunicazione del ministro Moavero sulle linee programmatiche del suo dicastero, rilasciata alle commissioni congiunte Affari esteri ed emigrazione di Camera e Senato.

Il ministro Moavero Milanesi ha confermato la collocazione euro-atlantica del nuovo governo. Si può affermare che non ci sono più dubbi a tal proposito?

Sì, non ci sono più dubbi, ma è stato importante che il ministro Moavero abbia deciso di renderlo esplicito, dato che la questione era per ora tra il detto e il non detto. Giustamente, approfittando dell’avvicinarsi del Summit Nato e contestualmente ad altre vicende di politica estera, ha deciso di essere piuttosto esplicito, risolvendo definitivamente quello che restava un dubbio e ribilanciando, non solo nella sostanza, ma anche nello stile, l’atteggiamento piuttosto vivace del ministro dell’Interno.

Mentre le due sponde dell’Atlantico si dividono su diversi dossier, il titolare della Farnesina ha detto che l’Italia punta ad essere partner privilegiato degli Stati Uniti nel rapporto con l’Unione europea. È un obiettivo ambizioso o credibile?

Entrambe le cose. È ambizioso perché è difficile rapportarsi in modo costruttivo con l’amministrazione Trump, come dimostrano le difficoltà incontrate dal presidente francese, Emmanuel Macron, che ha tentato un’operazione simile con esiti piuttosto limitati. È credibile perché c’è un senso nel compiere tale tentativo, per lo più legato al contesto frammentato dell’Europa. Oltre alle difficoltà trans-atlantiche, infatti, si assiste a un certo frastagliarsi di quelli che dovrebbero essere gli interessi europei. Dunque, c’è uno spazio per muoversi in tale direzione, con la prudenza e la cautela che Moavero, così come il premier Conte, certamente avrà.

Proprio riferendosi alle divisioni del Vecchio continente, Moavero ha parlato di un’Europa “gruppettara”. Il riferimento è alla Francia di Macron o al gruppo di Visegrad?

Ho la sensazione che si riferisse a un contesto generale. Il problema di un certo comportamento francese, che a intermittenza propone piccoli gruppi di Paesi, è infatti vecchio come l’Europa. Anche l’Italia ha aderito a questi gruppi e non c’è nulla di scandaloso. Anche il gruppo di Visegrad porta avanti un’operazione legittima politicamente. Nulla vieta raggruppamenti formali o informali all’interno del contesto dell’Ue, come d’altronde dimostra anche la più recente Pesco. Ad ogni modo, e credo che sia stato questo il messaggio urbi et orbi di Moavero, se tale fenomeno prolifica, il rischio è che non ne benefici nessuno.

Con riferimento al Summit Nato, al via domani a Bruxelles, il ministro ha ribadito che l’Italia chiederà una maggiore attenzione al fianco sud. Anche su questo, il nuovo governo sembra porsi in continuità rispetto alla tradizionale linea italiana. È così?

Sì, si tratta di una richiesta in continuità con il passato, e anche il modo in cui l’ha posta Moavero segue una linea tradizionale. Però, è anche vero che le condizioni rispetto al dibattito tradizionale sul fianco sud sono cambiate, in particolare dal 2011, quando le Primavere arabe hanno attivato una forma nuova di flussi migratori (per quanto anch’essi siano un fenomeno vecchissimo). Dunque, il riferimento è alla linea consueta che l’Italia ha avuto in ambito Nato rispetto al famoso sud, ma tenendo in considerazione che questo si è evoluto, e che non riguarda solo l’instabilità e il terrorismo, ma anche una pianificazione più ampia che coinvolge le rotte marittime. Su questo, mi sembra che Moavero sia in buona sintonia con il resto del governo, sebbene la sua voce, nella divisione del lavoro all’interno dell’esecutivo, sia la più rassicurante rispetto alla retorica aggressiva di altri ministri.

Sembra che le differenze nello stile e nella forma siano particolarmente evidenti nel confronto tra Moavero e altri esponenti del governo. Questo ha un ruolo sulla postura internazionale dell’Italia?

Nell’era Trump c’è un fortissimo impatto del fattore e della chimica personali, che diventano nei Summit un aspetto purtroppo decisivo. In tal senso, è importante che l’Italia si presenti con una voce calma e abituata a negoziati estenuanti come quella di Moavero. Proprio la personalizzazione della politica estera è stata infatti uno dei problemi del governo in queste prime settimane, in cui Salvini e Di Maio hanno spesso parlato di temi esteri. Ciò rappresenta un problema nel contesto creato dal presidente Trump, in cui le personalità possono creare più danni che benefici. L’approccio di Moavero conviene all’Italia anche per una struttura costituzionale a primo ministro debole, diversa rispetto ai sistemi presidenziali o al cancellierato tedesco. I modi del ministro degli Esteri riportano dunque l’attività di governo entro i consueti limiti istituzionali.

In vista del Summit di Bruxelles, Moavero ha legato la questione migratoria ai tema della sicurezza e difesa, paventando l’ipotesi che terroristi si nascondano tra i migranti. Portare un dossier così caro al governo già sul tavolo del vertice di domani è un’operazione fattibile?

Ritengo che sarebbe stato opportuno portarlo sul tavolo dell’Alleanza Atlantica già diversi anni fa. A tal proposito, il vero problema non sarà il coraggio (che questo governo avrà) di legare il tema migratorio alla sicurezza di tipo tradizionale, e cioè all’idea del terrorista che si nasconde tra migliaia di migranti. Il vero problema da porre, e si potrebbe farlo già al vertice di domani, è la questione del controllo delle rotte marittime, che certo rientra nelle competenze della Nato, non solo per un convoglio militare di una potenza ostile, ma anche per le rotte commerciali e per le questione umanitarie che riguardano le rotte dei migranti. L’Alleanza deve occuparsi in senso ampio della sicurezza, e quindi anche del dossier migratorio. È un tentativo in salita, ma va fatto.

Sul tema caldo del vertice (il 2% del Pil da spendere in difesa), Moavero ha avanzato la proposta di conteggiare gli investimenti nei meccanismi della difesa europea all’interno del calcolo Nato. È una posizione condivisa con altri Paesi?

Credo che ci possano essere delle alleanze pragmatiche e realizzabili con alcuni partner. Su questo argomento, l’Italia ha da sempre avanzato due richieste. Primo, l’idea di rendere più integrate le spese per la sicurezza e la difesa in ambito europeo e in ambito Nato, proposta su cui ci sono sicuramente delle sponde continentali. Secondo, il ricalcolo qualitativo delle spese, cioè l’idea che tutte le spese non sono uguali. In altre parole, un investimento fatto per il miglioramento di performance operative dovrebbe essere conteggiato in modo diverso rispetto alle spese per una caserma. Ciò potrebbe convenire particolarmente all’Italia, che ha bisogno di ammodernare i propri equipaggiamenti.

Le difficoltà sul fronte della spesa sono “bilanciate” dal forte contributo nelle missioni internazionali, ha detto Moavero. Nel contratto di governo si parla di una “rivalutazione” degli impegni all’estero. Cosa succederebbe se venisse intesa come una riduzione?

È difficile avere le idee chiare su come il governo voglia procedere rispetto alle missioni internazionali. Ho sentito statement contraddittori e non so come vorranno articolare la postura militare. Certamente, tornando al discorso precedente, avrebbe senso conteggiare diversamente il contributo alle missioni di stabilità, pace e sicurezza, considerando ad esempio l’asimmetria rispetto alla Germania. L’Italia ha infatti accettato di far parte di operazioni più pericolose, con più costi (economici e di rischi) e meno esitazioni e caveat rispetto a Berlino, e questo va giustamente calcolato nella logica qualitativa delle spese. Ad ogni modo, le missioni rappresentano per noi un punto di forza e se andassimo a ridimensionare l’impegno avremmo certamente problemi sui vari tavoli poiché non potremmo più utilizzare tali argomentazioni. Ciò preoccupa anche perché l’Italia è molto apprezzata riguardo la partecipazione alle missioni internazionali.

Moavero ha anche parlato della crisi commerciale tra Europa e Stati Uniti, che tocca per ora poco il nostro Paese. Il rapporto con Washington, ha detto il ministro, va preservato. Ma come lavorare su questo aspetto?

Con molta pazienza, considerando che, dato l’atteggiamento americano, le difficoltà paiono enormi. In tal senso, dubito ci sia spazio per iniziative bilaterali, non solo per una questione politica ma piuttosto per una questione legale che riguarda i trattati internazionali. L’Italia ha subordinato la propria politica commerciale a quella dell’Unione europea. Una negoziazione con gli Usa passa inevitabilmente attraverso il contesto europeo e la difficoltà ad utilizzare il rapporto bilaterale. Quello che si può sperare, ed è importante che Moavero vi abbia fatto riferimento, è che il governo non abbia esitazione nel respingere con forza la logica dei dazi. L’America se la può permettere (anche se personalmente credo che avrà conseguenze negative), noi no, poiché siamo un Paese che vive di export. Le parole del ministro degli Esteri rappresentano la prima apertura del governo su un tema su cui davvero non possiamo scherzare col fuoco. Come lavorarci è difficile, ma certo occorre restare agganciati al treno europeo e non fare la voce fuori dal coro.

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