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I risultati delle elezioni ungheresi di domenica sono di eccezionale interesse e non possono essere liquidati con letture superficiali o ispirate a vecchi e polverosi stereotipi novecenteschi, poiché altrimenti si finisce per non capirci più nulla.
Cominciamo col dire che Viktor Orbán vince le elezioni per la terza volta consecutiva, sfatando il mito secondo cui governare fa perdere voti. Lo fa su un impianto di forte rilancio dell’orgoglio nazionale, di dichiarata ostilità alle politiche europee di accoglienza agli immigrati, di utilizzo fino all’ultimo euro dei fondi Ue e con una gestione spiccia, sfrontata e spesso urticante dei rapporti politici e con i media. Così esce dalle urne con il 50 % dei voti (cinque punti in più del 2014), portando a casa una vasta maggioranza parlamentare.

Naturalmente tutta l’Europa progressista lo critica (elemento che lo riempie d’orgoglio), mentre dal Partito popolare europeo si alzano voci di esplicita soddisfazione, anche perché il suo movimento politico Fidesz ne fa parte dal 2004, con un ruolo via via crescente.

Importanti sono in particolare le parole del nuovo ministro dell’interno tedesco Horst Seehofer, da dieci anni leader della Csu (il partito bavarese alleato di Angela Merkel), che invita l’Europa ad abbandonare “arroganza e pregiudizi” verso il primo ministro ungherese e la sua azione politica.

Ecco allora venire avanti i due punti essenziali di questa vicenda, entrambi carichi di conseguenze anche sullo scenario italiano. Il primo attiene al ruolo dei movimenti politici di sinistra ed alla capacità delle élite progressiste di mobilitare il consenso. È il punto su cui insiste anche la riflessione di Ezio Mauro ieri in prima pagina su Repubblica quando descrive, in buona sostanza, Orbán come una minaccia alla democrazia.

Qui occorre essere chiari, partendo proprio dai risultati elettorali ungheresi, dove i Socialisti (insieme ai Verdi) raggiungono il modesto risultato del 12 %, condannandosi così alla marginalità più assoluta. Ebbene questo è proprio il tema su cui la sinistra europea mostra di non capire quello che sta accadendo, provando ad attaccare Orbán (e quelli come lui) esattamente sui punti (immigrazione, tasse, metodi spicci di governo) che sono i suoi cavalli di battaglia, quelli che convincono i suoi elettori a votarlo. La sinistra cioè si pone in totale opposizione ai sentimenti prevalenti nell’elettorato (una volta avremmo detto nel popolo), finendo per relegarsi da sola ad una posizione tanto elegante quanto minoritaria.

C’è poi un secondo aspetto che ci riguarda da vicino, soprattutto alla luce delle parole di esplicito sostegno a Orbán pronunciate da Giorgia Meloni e, fatto ancor più rilevante, da Matteo Salvini. 

Orbán è e resta nel Ppe, anzi da lì riceve esplicito sostegno pur essendo egli assai critico su molte delle scelte compiute a Bruxelles. Cosa vuol dire tutto questo? Da un lato che Orbán non intende giocare la partita solitaria e dall’altro che i vertici dei popolari europei hanno capito perfettamente quello che la sinistra si ostina a non capire, cioè che il terreno di gioco è cambiato, che servono nuove parole d’ordine, nuovi comportamenti, nuovo approccio con il governo e con la leadership. Insomma il Ppe come “casa” anche dei nuovi “sovranisti”, per esserne condizionati e per condizionarli. Tutti elementi che dovrebbero portare Matteo Salvini a riflettere sul tema, ipotizzando un ingresso della Lega nel Ppe.
Se ci sta Orbán, ci può stare anche lui. Vale per l’oggi ma, soprattutto, vale per il domani.

Salvini, governo, berlusconi

Salvini faccia come Orbán: entri nel Ppe

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