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La contrapposizione tra Oriente e Occidente va dilatandosi in maniera allarmante. Nella parte dell’emisfero che ci vede protagonisti di una decadenza senza fine, ci sembra di percepire tutto ciò che viene da Est come una globale sfida destinata a vederci soccombenti. E’ una sensazione sgradevole, indubbiamente, ma infondata. Anche perché noi occidentali consideriamo l’inimicizia orientale come assoluta e irreversibile. Naturalmente c’è Oriente ed Oriente, come c’è Occidente ed Occidente. Ma il dualismo rimane nel cosiddetto immaginario collettivo quanti più i bagliori di guerra diventano alto e velandosi da lande vicine alle nostre si mostrano minacciose almeno quanto i fuochi di terrore, provenienti dal’Oriente islamizzato dal fanatismo ideologico e religioso, ci fanno capire che il nemico esterno è pericolosamente diventato il nemico interno, sposatosi il fronte la nostra vita sembra essersi ristretta. Ma è davvero così?

Renè Guènon (1886-1951), in Oriente e Occidente (Adelphi) ci invita ad assumere una prospettiva più realistica e allo stesso tempo più profonda. Non voglio dire inducendoci a costruire ponti oggettivamente irrealistici in questo momento (ma quanto irrealistici poi non saprei se soltanto l’intelligenza operasse…), ma indirizzando verso il dialogo tra le civiltà un’umanità allo sbando che si ricollega alla diagnosi formulata nel suo saggio più importante e significativo che periodicamente viene ripubblicato: La crisi del mondo moderno (nuova edizione critica, a cura di Gianfranco de Turris, con la collaborazione di Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa, Edizioni Mediterranee, pp.254, 14,50 euro) nella quale, come intuì Julius Evola al suo apparire, che lo tradusse in italiano per Hoepli nel 1937 , avrebbe cambiato la prospettiva nel “mondo nostro” immettendoci in una dimensione “metastorica” tale da farci comprendere i processi evolutivi ed involutivi dei rapporti tra le civiltà, a cominciare da quella che ci sta di fronte e con la quale qualcuno, irresponsabilmente ha immaginario l’ineluttabilità di uno scontro dalle conseguenze irreparabili.

Sicché per comprendere la dicotomia Oriente/Occidente è all’opera maggiore di Guènon che dobbiamo riferirci. E rileggerla in questi giorni, mentre il Mediterraneo diventa un mare in tempesta e le coste occidentali dell’Europa si riempiono di grida percettibili provenienti dalle regioni mediorientali, è un dovere intellettuale per comprendere la solitudine dell’Occidente e la sua tragica decadenza fino a rinunciare ad essere quell’elemento di equilibrio che pure dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale ed i molti conflitti che dopo si sono succeduti aveva per sé immaginato.

Non è con la logiche geopolitiche (o non soltanto con esse) che le civiltà s’interpretano e dunque le si assegnano dei ruoli. Se l’Occidente vive una fase della sua plurimillenaria storia (che per buona parte è stata storia europea) non lo si deve alla “provocazione” dell’islamismo né oggi, né dalle prime avvisaglie egemoniche fermate a Poitier e poi concretatesi in Andalusia, fino a smantellarle tra Lepanto, Belgrado e Vienna in memorabili battaglie dove il potere temporale europeo si univa con quello universale della Cristianità per difendere la civiltà che era stata greca, mediterranea e romana. È con le diagnosi di morfologi della storia (Spengler, Toynbee, Huizinga) e “mistici” della cultura come Guènon che si aprono le porte alla comprensione di un mondo smarrito che perciò non Sto arrivando! Più difendersi.

Quando giovanissimo, m’imbattei nel libro di Guènon, La crisi del mondo moderno, non potevo immaginare che dalla lettura ne sarei uscito trasformato. Non saprei dire oggi che effetto possa fare, ma il semplice fatto che viene riproposto lascia ben sperare sulle sue fortune. Il saggio è di quelli che lasciano il segno e ti fanno percepire la realtà nel profondo. La negazione della dimensione spirituale presiede la modernità, la caratterizza, le dà il tono, come si dice. Lo studioso francese, nella seconda metà degli anni Venti, quando diede alle stampe il suo volume, era già consapevole del disfacimento prodotto dal mito del progresso e dai numerosi corollari da esso discendenti. E provò a mettere nelle buone coscienze degli europei del tempo un sentimento: la decadenza. Nella speranza, naturalmente delusa, che essi l’accettassero e provvedessero a scrollarsi di dosso il mantello del nichilismo che li avvolgeva.

Il crepuscolo della civiltà era nell’aria. Si sarebbe manifestato pienamente decenni dopo. Noi viviamo l’ultima fase, come preconizzò Guènon. E da essa siamo incapaci di uscirne. Inaccessibile ad ogni compromesso, come notò Evola nella prima edizione italiana, lo scrittore francese lanciò con la sua Crisi l’allarme più compiuto che completa, insieme con quelli lanciati da Spengler, Keyserling, Massis, Benda, una sorta di morfologia della dissoluzione. Anche per questo le anime deboli del nostro tempo si tengono lontane dalle diagnosi attualissime peraltro di Guènon.

Diagnosi che attengono alle grandi questioni irrisolte del nostro tempo, come il rapporto, fattosi drammatico, tra Oriente ed Occidente; la conoscenza e l’azione; la scienza sacra e quella profana; l’invadenza dell’individualismo; le degenerazioni del democratismo in populismo e totalitarismo; il materialismo connesso al determinismo ed al relativismo. Insomma un breviario delle contraddizioni che animano la nostra epoca non meno di quanto animassero l’epoca in cui le riflessioni guenoniane presero a circolare. È naturale iscrivere questo libro nella storia delle idee legate alla crisi dell’Occidente. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che in esso l’autore si produce anche in formulazioni propositive circa la riapparizione dell’autorità, della religiosità, della spiritualità quali fondamenti della vita civile.

Sarebbe ingiusto, perciò, relegare La crisi del mondo moderno tra le anticaglie intellettuali che non dovrebbero neppure più essere citate. Al contrario, la fioritura di studi attorno a Guènon è impressionante ed il suo pensiero conosce una vasta diffusione come provano le molte edizioni dei suoi libri pubblicati da Adelphi in Italia.
Forse una piccolo risarcimento postumo, dopo anni di oblio. O, più verosimilmente, la forza di un’idea che s’impone malgrado il dominante “pensiero unico”. Comunque sia, Guènon era consapevole che una possibilità di rinascita tra le rovine del mondo moderno esisteva: “Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento – scriveva – debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità”.

Allora e per sempre.

Rileggere Guènon per comprendere le ragioni della crisi tra Occidente e Oriente

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