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Lunedì 14 aprile 2008. Primo pomeriggio. Con i taccuini, i microfoni, le telecamere e soprattutto i numeri in arrivo dal Viminale verrà tagliato il nastro tricolore che inaugurerà – ancorché ufficiosamente – la legislatura XVI. Nell’universo calcistico, il sedici è stato per anni il numero dell’ultima speranza, quello impresso sul dorso della maglietta dell’ultimo atleta della panchina lunga. L’attaccante da mandare in campo, da gettare nella mischia in caso di difficoltà. L’ultima carta utile per dare un finale diverso a una storia già scritta. Per uscire dalle secche, o per completare definitivamente la transizione incompiuta – tanto per usare costrutto che in più di un decennio si è guadagnato sui giornali e nei dibattiti pubblici l’etichetta di evergreen – l’Italia gioca sul sedici.

Per chi fosse alla ricerca di un modello in cui la sfera decisionale si estenda dal vincitore della tornata elettorale al vinto, o che contempli la coesistenza pacifica e produttiva di due pareggianti (“Per il bene del Paese”: si dice così, no?) si potrebbe comodamente guardare all’Europa (escludendo la Spagna di Zapatero, il cui Psoe ha avuto numeri e capacità per rilanciare il Paese più o meno da solo).

E quindi puntare il mirino sulla Germania grandemente coalizzata di Angela Merkel. O sulla Francia di Francọis Sarkozy e dell’ormai celeberrima commissione affidata a Jacques Attali.

C’è un’alternativa. Ed è quella di cercarsela negli italici confini, la stella polare da seguire. Alcide De Gasperi, ad esempio. Il cattolico Alcide De Gasperi che “la sinistra”, la stessa che nel recente passato ha rimpianto l’equilibrio della politica estera di Giulio Andreotti, inserisce oggi nel pantheon degli ultra-laici. Il De Gasperi che nel 1952 rifiuta l’alleanza con le destre e con essa il diktat della Santa Sede, pronta a tutto pur di evitare che il Comune di Roma finisse in mani socialiste (“Proprio a me, povero cattolico della Valsugana, è toccato dire di no al Papa”, disse).

Un decennio prima, nel 1943, quand’era in clandestinità, De Gasperi aveva tracciato in un opuscolo ciclostilato il profilo di un’Italia post-fascista e democratica.

Le idee ricostruttive della Democrazia cristiana altro non erano che il piano d’azione per l’approdo a quella che oggi chiameremmo “una nuova stagione”. Un piano in cui i meccanismi istituzionali si fondevano con le riforme dell’industria e del regime tributario, in cui prendeva forma ante-litteram un processo di integrazione europea e di solidarietà tra i popoli, in cui non venivano trascurate soluzioni per dare “adeguata soluzione (ai) problemi specifici del Mezzogiorno”.

Riforma delle istituzioni, fisco equo, giustizia giusta, Europa, laicità, lavoro, imprese da rilanciare – citate in ordine sparso – sono gli elementi del bagaglio degasperiano che si trovano oggi nei programmi elettorali dei due principali player: il Partito democratico di Veltroni e il Popolo delle libertà di Berlusconi. Quasi come se oggi, nel 2008, come allora, l’Italia si trovi ancora in un’atmosfera post-bellica, in cui i messaggi da veicolare all’elettore siano “rialzarsi”, “ricostruire”, “rinnovare”, “crescere”.

L’esigenza di trovare un percorso comune di riforme passa per quelle che giornalisticamente vengono denominate “intese”. E le intese, nel tempo in cui le coalizioni della “Seconda Repubblica” sono state inghiottite dalla “Seconda Repubblica-e-tre-quarti” iniziata con la caduta del governo Prodi, non possono che essere “larghe”. Ma le larghe intese, in campagna elettorale, sono tema appannaggio di terzi o quarti poli; oppure le speranze segrete che le principali forze politiche sono costrette ad archiviare alla voce “tabù”. E così, al Berlusconi che aveva rifiutato di tenere in vita la quindicesima legislatura, è capitato di rispondere a precisa domanda che lui sì, “in caso di pareggio”, le larghe intese le farebbe. È finita con il solito coro a più voci. Larghe intese? “Praticabilità zero, perché gli elettori sono molto più avveduti di quello che qualcuno pensa” (Gianfranco Fini). “Non vogliamo fare inciuci col governo Berlusconi” (Tonino Di Pietro). “Mai” (Roberto Calderoli). “Sarebbero una cappa sul Paese” (Fausto Bertinotti). “Vuol dire che il Cavaliere non è più così sicuro di vincere le elezioni” (Walter Veltroni). Morale? Berlusconi, che aveva avviato il giro di valzer, ha fatto tacere la musica portandosi via gli orchestrali: “Altro che larghe intese. Noi siamo qui per vincere con una larga maggioranza e avere il diritto e il dovere di governare”. Ma questa, si sa, è la campagna elettorale. Il tema di toccare le corde giuste per risollevare il Paese rimane. E l’idea di sprecare un altro giro, dopo la legislatura numero quindici, non passa per la mente di nessuno, anche perché nessuno può permetterselo. Né Berlusconi, che ha passato i mesi antecedenti la caduta del governo Prodi a tener acceso il canale di dialogo con Veltroni sulle riforme; né Casini e i centristi, che all’interno del Partito democratico hanno avuto altri interlocutori su altre prospettive; né la sinistra, che i sondaggi danno prossima a un netto (ma netto davvero) ridimensionamento.

Tarare l’ipotesi delle larghe intese modello De Gasperi su un pareggio elettorale o, al limite, sulle incertezze dei prossimi numeri del Senato è arte da scommettitori azzardati e poco avveduti. Trovare un’agenda comune, un grande accordo che contempli la G di giustizia e la R di riforme istituzionali, la F di fisco e la I di istruzione, la R di regolamenti parlamentari e la L di liberalizzazioni (ma sono solo alcuni degli esempi possibili), è questione di volontà politica. Come quella, tanto per fare un esempio, del Giulio Tremonti che qualche tempo fa, in un’intervista, si è augurato che il suo avversario “perda bene”. C’è chi, come Silvio Berlusconi, può puntare l’ultima fiche sulla grande ambizione personale, sull’inconfessabile sogno di guidare il Paese al definitivo superamento della transizione. E chi, come Walter Veltroni, scommette su se stesso come protagonista degli anni a venire. Sono loro due ma non sono i soli. La sedicesima legislatura può partire all’insegna di un inedito disegno. E il 2008, per l’Italia, potrebbe diventare l’Anno uno. Anno uno, come il titolo del film di Rossellini che aveva per protagonista proprio il personaggio di De Gasperi.

(Articolo pubblicato sul numero di aprile 2008 di Formiche)

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