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L’hanno aspettato al varco. E appena si sono resi conto che Bergoglio non ha voluto tirarsi indietro nemmeno di un centimetro, hanno colpito. Così è andata la tenzone, sulla vicenda del caso Juan Barros, tra il quotidiano The New York Times, che già da mesi affonda la penna contro l’attuale pontefice sul tema degli abusi sessuali da parte di membri del clero cattolico, accusandolo di non incidere con la giusta durezza contro i soggetti ritenuti responsabili di essere complici di casi di abusi sui minori, e papa Francesco. Che evidentemente, nel caso del prelato cileno coinvolto – o trascinato dentro – nello scandalo di padre Karadima, non ha fatto la stessa valutazione degli accusatori. D’altronde, convinto dell’innocenza del prelato, il pontefice anche in questa situazione avrebbe potuto riutilizzare la sua famosa affermazione: “Chi sono io per giudicare?”.

“Le osservazioni del papa durante la notte di domenica hanno suscitato preoccupazioni che lui non comprende”, ha scritto martedì Jason Horowitz sul New York Times, spiegando che i sostenitori di Bergoglio temono che questo “minacci di eroderne l’autorità morale e la popolarità globale”. “L’inazione e il passo falso del papa sulla questione sembrano prosciugare il suo pozzo di buona volontà, apparentemente senza fondo”, ha affondato ancora il quotidiano newyorkese, non senza mostrare il proprio guanto di sfida verso il pontefice. La risposta netta di Bergoglio ha infatti colto di sorpresa molti giornalisti e osservatori, nonostante i manifestanti fossero già scesi nelle piazze cilene da diverse settimane per evidenziare le loro accuse al prelato cileno, assieme a molti membri della stessa Chiesa cilena. In aperto scontro con chi invece rispetta la scelta del papa di difendere il religioso fino a un eventuale palesarsi di “evidenze”. “Molti sostenitori delle vittime hanno ascoltato meno verità nelle dichiarazioni fatte dal pontefice, piuttosto che nella risposta formale data alla domanda del giornalista cileno sul vescovo Barros”, ha scritto il quotidiano americano.

Il caso però, a detta del vaticanista americano, non interessa soltanto la politica interna cilena, ma è il riflesso di una divisione ben più ampia, interna alla Chiesa di Roma, che coinvolge il pontificato di Francesco, iniziato con una spinta migliore rispetto ai suoi precedenti, ma in seguito rallentatosi a causa della difesa di alcune figure a lui vicine, e allo stesso tempo pubblicamente osteggiate. Come il cardinale Pell, oppure il vescovo Barros. “Quando Francesco fu eletto nel 2013, i sostenitori espressero un ottimismo sfrenato verso l’idea che avrebbe intrapreso il passo cruciale e politicamente delicato nel ritenere responsabili i vescovi accusati di avere coperto i preti pedofili. Questo non è successo”, ha affermato netto il Nyt. “Molti osservatori vaticani hanno suggerito che Francesco si sta dimostrando un riformatore meno efficace sulla questione rispetto al suo predecessore conservatore, Papa Benedetto XVI, che ha cacciato centinaia di preti dalla Chiesa”, si legge ancora.

Tutto ciò sarebbe quindi lo specchio di una divisione esistente a Roma, e altrettanto all’interno dell’episcopato americano, in cui “da una parte ci sono coloro che credono che una politica di tolleranza zero e di responsabilità restino vitali per la credibilità della Chiesa e per la protezione dei minori”, e “dall’altra quelli che credono che la Chiesa abbia già fatto abbastanza sul problema, e che il problema sia già superato, ed è diventato solamente un randello usato dai nemici della Chiesa. Per alcuni sostenitori, questa settimana papa Francesco si è trasferito decisamente nel secondo campo”.

Il riferimento è ovviamente alla reazione dell’arcivescovo di Boston Sean Patrick O’Malley, che ha in qualche modo pubblicamente “corretto” in maniera inedita il pontefice, che da parte sua ha però condiviso la lettura e l’opinione dell’americano, al punto da portarlo a scusarsi per l’utilizzo improprio della parola “prove” (qui l’intervista di Formiche.net sulla vicenda allo storico Alberto Melloni). “O’Malley forse indovinava che le parole del papa sarebbero state usate da chi vuole bollare la Chiesa come ambigua: accusa maligna ma sempre in agguato”, scrive infatti oggi Massimo Franco sul Corriere della Sera. Lo stesso cardinale francescano che però, “con il suo messaggio di dissociazione, ha aperto una falla culturale”, ha proseguito Franco. “Non tanto con Francesco, ma sul modo di affrontare gli abusi nella Chiesa”: “un tema che finisce per evocare una divergenza tra episcopati del Nord e del Sud America”, e che “si riflette di nuovo all’interno del C9”, finendo per “gettarne un’ombra anche sull’evoluzione”. O ancora, “una divergenza così plateale sul tema degli abusi sessuali rischia di trasformare il ‘Gabinetto di pace’ di Bergoglio nel parafulmine delle tensioni tra episcopati”.

“A pochi sfugge che la presa di posizione di O’Malley appare il sintomo di un malessere covato silenziosamente per mesi”, ha così proseguito il giornalista del Corsera. Cioè “sottolinea l’insoddisfazione per il modo in cui il Vaticano ha declinato la ‘tolleranza zero’ nei confronti degli abusi sessuali: sebbene sia Francesco, sia il predecessore Benedetto XVI abbiano cercato di spezzare la cultura del segreto e la mentalità che rendono difficile la soluzione del problema”. Tutto ciò fa così riemergere “la difficoltà di fissare linee di comportamento valide per tutti. Il tema è troppo scivoloso e divisivo, e risente delle culture diverse nelle quali gli abusi, o presunti tali, si consumano; e delle correnti di pensiero contrastanti nella Chiesa. La scelta di O’ Malley di rendere pubblico il dissenso va inserita su questo sfondo. Arriva dopo segnali di resistenza alle scelte di Francesco, trasmessi dai vescovi statunitensi verso uno dei suoi pupilli: l’arcivescovo di Chicago e cardinale Blase Cupich“.

Del resto già da tempo il New York Times martella su questo chiodo. A giugno, commentando il permesso di congedo rilasciato da Francesco al cardinale Pell per andare a difendersi in Australia, il giornale americano aveva scritto che nonostante le aspettative di progressi sul tema, nei risultati “non è esattamente andata così”. “Cattiva notizia per un pontificato che è stato per lo più immerso nell’adorazione globale”, si legge nell’articolo firmato sempre da Horowitz ma assieme a Laurie Goodstein, dove la pedofilia viene etichettata come “un punto cieco” del suo pontificato. Definizione utilizzata di nuovo nell’ultimo articolo. Rispetto ai predecessori, compreso Benedetto XVI che ha fatto “importanti cambiamenti” positivi ma ha lasciato nei loro ruoli “i vescovi”, viene ancora scritto, Francesco aveva “sollevato aspettative” migliori, come con la commissione per la tutela dei minori, ma poi “nessuna disciplina o sanzione è mai stata annunciata”.

E già nei giorni precedenti, durante la sua visita in Perù, a differenza di quanto accaduto in Cile dove c’è stato un incontro faccia a faccia di Bergoglio con le stesse vittime, sempre il quotidiano americano affermava che Francesco “non ha affrontato l’elefante nella stanza” degli scandali sugli abusi sessuali. Citando, a supporto di una critica complessiva al pontefice, prima i dati percentuali sul calo del cattolicesimo in Perù, e dopo le impressioni di una minore affluenza alla sua celebrazione cilena dei giorni precedenti. Poi, in seguito all’aperta difesa del Papa verso il vescovo Barros, si legge in un titolo che questa “provoca sdegno”. Stessa tesi avanzata già nel martedì precedente, subito dopo l’arrivo del Papa in terra latino americana, anche dal quotidiano londinese The Guardian, che batteva: “L’intenzione di Papa Francesco di eliminare i reati di abusi sessuali da parte dei preti – e la loro copertura decennale da parte della Chiesa cattolica – è messa alla prova in seguito alla nomina di un vescovo in Cile collegato a un noto caso di abuso”, cioè Barros. La partita resta aperta.

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