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Pubblichiamo le conclusioni del libro “Fino a prova contraria”, scritto dalla giornalista Annalisa Chirico ed edito da Marsilio

Esiste un antidoto contro la repubblica giudiziaria: si chiama “primato della politica”. Soltanto una politica forte, consapevole della propria missione, può essere il motore del cambiamento. Non è un caso che, in più occasioni, autorevoli magistrati, nonché il Consiglio superiore della magistratura, abbiano invocato l’intervento del legislatore al fine di regolare materie rilevanti per l’amministrazione della giustizia. Si pensi soltanto alle cosiddette “porte girevoli”: la delibera, adottata nel 2015 dal plenum di Palazzo dei Marescialli, prevede il divieto di svolgere contemporaneamente funzioni politiche e giurisdizionali (per scongiurare i casi di pm assessore o giudice sindaco,
consentiti dalla legge vigente). Il documento approvato dall’organo di autogoverno della magistratura considera la “discesa in campo” del magistrato come un percorso irreversibile: al termine dell’esperienza politica, la toga deve essere ricollocata nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato o della dirigenza pubblica, senza che possa tornare a svolgere il ruolo di pm o giudice. Sono trascorsi mesi, anzi anni, e in Parlamento si discute una legge che vedrà la luce chissà quando e che, per paradosso, introduce norme più blande e permissive di quelle concepite dai magistrati. Che dire poi delle circolari di autoregolamentazione interne alle procure, ovvero dei ripetuti moniti, provenienti
dalla magistratura associata, contro l’uso politico della giustizia a opera di chi brandisce avvisi di garanzia e soffiate giornalistiche per risolvere conti interni ai partiti. La supplenza togata è l’altra faccia dell’inerzia politica.

Un movimento fondato da un comico ha costruito il proprio successo elettorale sulla falsa credenza che i politici siano una massa di ladri e corrotti, e che il penale rappresenti la panacea di tutti i mali, il lavacro per la società intera. Meglio i buoni a nulla che i capaci di tutto. Nel “circo mediatico-giudiziario”, secondo la celebre definizione dell’avvocato francese Daniel Soulez Larivière, i capisaldi dello Stato di diritto vengono sacrificati sull’altare del fanatismo punitivo. L’articolo 27 della Costituzione? Da riformulare: siamo tutti colpevoli fino alla sentenza definitiva. La prescrizione? Va abolita. La democrazia rappresentativa? Meglio la tirannia del clic.

Per tornare a governare il fenomeno giudiziario, nelle sue molteplici sfaccettature e senza derive autoritarie (la paura dell’uomo solo al comando ha fatto sprofondare il Paese nel pantano immobilista), serve una classe politica credibile. Spetta a essa, e non alla magistratura, il compito di selezionare il proprio personale. In questo quadro la burocrazia togata è un alleato, non un nemico. La stragrande maggioranza dei novemila magistrati italiani è composta da professionisti che intendono tutelare l’autorevolezza e l’onore della categoria. Il protagonismo di pochi getta discredito su tutti. Se la macchina dei tribunali si dimostra all’altezza delle aspettative dei cittadini, i
magistrati sono più forti nella società. Contro la repubblica giudiziaria dobbiamo anzitutto mettere in sicurezza l’abc dello Stato di diritto.

Basterebbe mandare a memoria la lezione di Giovanni Falcone sull’informazione di garanzia, “non una coltellata da potersi infliggere così ma qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato”. È “profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario”. “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”

Una volta salvaguardati i pilastri della democrazia, si potrà ragionare sui diversi campi d’intervento. C’è una gigantesca questione organizzativa che non va elusa; esistono uffici giudiziari che, a parità di norme e risorse, registrano divari di produttività ragguardevoli. Un buon magistrato non è per forza un buon dirigente, oltreoceano il court manager non è laureato in Giurisprudenza ma in Business administration. Bisogna proseguire nella direzione di una magistratura specializzata per venire incontro alle esigenze delle imprese: le ragioni del diritto e dell’economia non sono destinate a fare a pugni, né può ritenersi libero il Paese dove l’imprenditore onesto ha paura del magistrato.

C’è un’eccessiva domanda di giustizia, un gran numero di illeciti sarebbero affrontati in modo più efficace e celere nell’ambito della stessa amministrazione e, in ogni caso, con metodi di risoluzione extragiudiziale. È necessario separare le carriere di magistrati e giornalisti, non limando l’ennesimo avverbio di un divieto già in vigore, ma introducendo sanzioni effettivamente dissuasive (una multa di poche decine di euro non lo è). E, infine, quale effetto deflattivo avrebbe sul carico pendente l’introduzione
di una regola semplice semplice: se lo Stato ti assolve, nessun tribunale può processarti una seconda volta per i medesimi fatti. È il principio del ne bis in idem, un’invenzione degli antichi romani.

Nella Via della schiavitù Friedrich von Hayek ricorda che una società imbocca il sentiero dell’autoritarismo quando “si diffonde l’idea che, se si vuole che le cose vengano fatte, le autorità responsabili devono essere liberate dalle catene della procedura democratica”. Serve una classe politica che torni a fare, a decidere. Se così non accadrà, si affermerà l’ingannevole idea che la dittatura dell’algoritmo sia, tutto sommato, un’alternativa preferibile a pastoie procedurali e parlamenti vintage. È la sfida del futuro, anzi, del presente.

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