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Qualsiasi cosa si pensi dell’esposizione della Reichskriegflagge guglielmina nella stanza di un carabiniere, i giornali non hanno aiutato gli italiani a farsi un’opinione basata sui fatti anziché sulle ideologie. Intendiamoci. Sul caso hanno sbagliato in molti, dai superiori che non hanno visto (o hanno agito come se non avessero visto) al ministro che ha chiesto una condanna (anziché un procedimento disciplinare). Ma i giornali hanno mancato al proprio compito principale: fornire informazioni, separate dalle opinioni e verificate in modo indipendente.

Le interpretazioni sono sostanzialmente due. La prima, innocentista, è quella che potremmo definire di Gertrude Stein: una bandiera è una bandiera è una bandiera, a prescindere dal fatto che qualcuno la usi per aggirare il divieto di qualcos’altro. La seconda, colpevolista, è quella di Magritte: non è una bandiera, proprio perché tutti sanno come e perché sia sventolata dagli estremisti di destra. Ma questo è troppo poco per capire se il giovane carabiniere fosse davvero “un appassionato di storia”, come ha riferito il suo avvocato, o un neonazista. Per decidere chi abbia ragione quella bandiera andrebbe messa in una cornice, anziché lasciarla sventolare libera.

A sostegno della tesi innocentista si è parlato dell’illegalità della ripresa fotografica, della mancata punizione di ipotetici simboli simmetrici, dell’esatta natura della bandiera e persino dell’ignoranza del militare. I colpevolisti si sono richiamati al giuramento militare, ai carabinieri uccisi dai tedeschi (oltre 2.500, compresi i deportati), all’impossibilità di non sapere. Tutti elementi plausibili, ma ancora una volta sganciati dal fatto specifico.

Per passare dalle considerazioni generali alla responsabilità individuale occorrono più informazioni. Come si chiama? Cosa c’era sul suo profilo Facebook? Quali foto? Quali gruppi? Cosa si dice in caserma? Nel reparto dell’Esercito in cui aveva prestato servizio? E a Rieti, sua città d’origine? Che libri ci sono sugli scaffali di casa? Il 6° Battaglione Toscana ha prestato servizio d’ordine pubblico in situazioni nelle quali erano presenti estremisti che usavano la bandiera per aggirare il divieto di simboli nazisti? Ogni risposta è una tessera del mosaico che contribuisce a illustrare il significato di quella bandiera per quel giovane e, quindi, il motivo per cui è stata esposta. E ogni risposta richiede un lavoro da vecchio cronista: frequentare i bar intorno alla caserma, cercare i vicini di casa, identificare gli altri carabinieri nella camerata, guardare decine di filmati e centinaia di foto in internet per cercare le bandiere esposte dagli ultras. E per inserire il gesto in un contesto, perché non setacciare siti e forum per vedere se partecipava a discussioni politiche, e di quale tipo? Purtroppo di tutto questo non si è letto o visto nulla. Fatti pochi, opinioni tante – o meglio, le solite due, con le sfumature già descritte.

A parti inverse, lo stesso è accaduto al ministro Pinotti, attaccata o difesa per il solo fatto di essere una donna del Pd. Poco dopo il “caso bandiera”, ha iniziato a circolare in rete un attacco al ministro per una presunta foto dell’Afrika Korps (e, si presume, con il suo stemma con palma e svastica) esposta nel suo ufficio. Anche in questo caso, mancano i dati concreti. Che cosa raffigura? L’insegna è presente? Da quanto tempo è esposta la foto? L’ha messa la senatrice Pinotti o un suo predecessore? E se sì, quale? Chi ha scoperto e messo in giro la notizia? Anche qui, nulla. Al contrario, nessuno sembra essersi chiesto se nel chiedere provvedimenti esemplari il ministro non abbia anticipato il giudizio, forzando in qualche modo la mano ai superiori (se prevarrà un atteggiamento di tipo disciplinare) o ai pubblici ministeri (se si andasse nel penale). Un conto è chiedere un’inchiesta, certamente doverosa; un altro è chiedere una condanna prima ancora che siano accertati i fatti.

Insomma, il “caso bandiera” è stata una sconfitta per i giornali, che si sono mostrati incapaci di cercare e spiegare la notizia come si faceva una volta. Ci sono spiegazioni e attenuanti, certo, a partire dalle difficili condizioni di lavoro e dai compensi da fame, ma è chiaro che in questo caso il ripetere posizioni ideologiche (e i relativi pregiudizi) ha abbassato la stampa al livello dei social, senza apportare nessun valore aggiunto, senza dimostrare perché i fatti debbano essere separati dalle opinioni, senza distinguere la cronaca dall’editoriale.

E se qualcuno finisse per credere che tra giornali e social, tra giornalisti e intrattenitori de Le Iene non c’è differenza … chissà che non abbia ragione?

Il carabiniere, la bandiera e la sconfitta del giornalismo

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