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Ha fatto subito notizia e suscitato reazioni stizzite l’annullamento da parte del Tar del Lazio della nomina di cinque direttori di musei disposta meno di due anni fa dal ministro Dario Franceschini (nella foto). L’effetto più grave delle pronunce è la decapitazione dei vertici di musei nazionali la cui nuova gestione ha già prodotto in poco tempo risultati positivi.

Salvo un intervento immediato del Consiglio di Stato teso a sospendere gli effetti delle due sentenze pubblicate mercoledì che hanno dichiarato illegittimi i concorsi, le procedure dovranno essere rinnovate, in un caso partendo da un nuovo bando, nell’altro caso ripetendo solo le prove orali. È comprensibile dunque lo sconcerto per la tegola caduta su uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi.

Ma lo sconcerto, in questo come in altri casi, non può tradursi in invettive a critiche al giudice amministrativo o in richieste di una sua abolizione. Occorre quanto meno analizzare il testo delle sentenze per capire se si è trattato solo di cavilli o di gravi illegittimità. Due sono state le principali censure accolte.

La prima riguarda un errore della commissione di concorso che ha svolto le prove orali a porte chiuse, in alcuni casi su Skype. Il principio della presenza del pubblico alle prove orali è essenziale per garantire l’imparzialità. Infatti, mentre delle scritte resta una traccia documentale, che consente verifiche successive, il colloquio orale senza testimoni si può prestare ad abusi e favoritismi.

La seconda censura riguarda l’ammissione al concorso di candidati stranieri. Può essere lodevole questo tipo di scelta soprattutto per istituzioni museali che attraggono da tutto il mondo frotte di turisti. Tuttavia non si possono ignorare del tutto vincoli precisi imposti per legge. Infatti la normativa generale sui dipendenti pubblici prevede che solo i cittadini italiani possono essere assunti in posti che “implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri» o che «attengono alla tutela dell’interesse nazionale” (articolo 38 del Dlgs 165/2001). Un decreto attuativo include in questa restrizione tutti i posti di livello dirigenziale. Si tratta di norme forse un po’ datate, il cui campo di applicazione è già stato circoscritto dal diritto europeo. Comunque sia, un bando di concorso non può derogare a disposizioni legislative di questo tipo.

In questo caso, bastava una normetta da includere in quella speciale dettata nel 2014 per il reclutamento dei direttori dei poli museali di rilevante interesse nazionale, che sono stati assunti in deroga ai contingenti con contratti di diritto privato di durata da tre a cinque anni (articolo 2-bis del Dl 83/2014).

La domanda è allora se si può pretendere che un giudice amministrativo chiuda un occhio nei confronti di errori macroscopici delle commissioni o di “dimenticanze” del Parlamento che avrebbe dovuto ricordarsi della norma generale di divieto. Oltretutto, in questa vicenda il Tar del Lazio, non solo ha ritenuto infondate una serie di altre censure formulate dai ricorrenti, ma ha respinto del tutto altri ricorsi.

È giusto pretendere che i giudici amministrativi ponderino le loro sentenze anche sotto il profilo degli effetti, ma è altrettanto giusto richiedere a politici e commentatori di soppesare le parole. Altrimenti accanto al “No Tar” avremo a breve il “No rule of law” (o Stato di diritto).

(articolo tratto dal Sole24ore.com) 

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