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Mentre il G7, riunito in formato ministeriale Esteri a Capri in queste ore, sta decidendo di sanzionare l’Iran dopo l’attacco contro Israele nella notte tra sabato e domenica scorsa, Teheran rilancia. Parlando ai giornalisti iraniani in mezzo alla folla presente per la parata del Giorno dell’Esercito, il capo delle forze aeree del Sepah (i Pasdaran) ha detto che se Israele reagirà a sua volta l’Iran contrattaccherà a sua volta “al 100%”. Il generale Amir Ali Hajizadeh sa di viaggiare con un pallino rosso sulla fronte: è un bersaglio israeliano, e vista la fitta serie di precedenti storici che ha colpito i suoi colleghi, sa di essere molto vicino a un dead man walking.

Tuttavia la narrazione del regime teocratico, che per altro prevede per i generali uccisi lo status di martiri, non può fermarsi. Non in questo momento. È stato Hajizadeh a dirigere la rappresaglia iraniana contro Israele, colpevole di aver martirizzato – sul suolo iraniano dell’ambasciata di Damasco – sette ufficiali del Sepah. È lui a portare avanti parte della propaganda con cui adesso la teocrazia difende quell’attacco storico contro lo Stato ebraico – “l’entità sionista” – che ha rappresentato un precedente eccezionale (per questo Israele intende rispondere e lo stava per fare già lunedì, ma stando alle informazioni di Axios ha frenato all’ultimo minuto l’azione).

È stato Hajizadeh a dirigere gli oltre trecento vettori d’attacco aereo – droni, missili da crociera e balistici – lanciati dalle forze teocratiche iraniane. Non è un dettaglio quest’ultimo: il fatto che la situazione sia condotta direttamente dal Sepah (sono stati i Pasdaran per esempio a convocare l’ambasciatore svizzero, Paese parte delle comunicazioni indirette con gli Usa, e non il governo) è un indizio di come si distribuiscono i pesi delle forze di potere interne alla Repubblica islamica. Anche a ciò si legano risposte e contro-risposte, tra una posizione più razionale che vorrebbe l’uso dei proxy senza impegni diretti, un’altra (attualmente predominate) che spinge per un coinvolgimento invece diretto, e un’ultima pragmatico-riformista (sempre più marginalizzata) che eviterebbe show militari.

In un saggio su Foreign Affairs, Ali Vaez (uno dei massimi esperti delle dinamiche interne all’Iran), spiega che se gli hard-liner del regime hanno abbandonato la pazienza strategica e l’ambiguità per un’escalation allora è un “segno di debolezza”. E non è positivo. Se Israele risponde colpendo il territorio iraniano, la situazione potrebbe andare fuori controllo. “I due Stati potrebbero trovarsi in ostilità dirette e prolungate, che provocherebbero un alto numero di vittime e destabilizzerebbero ulteriormente una regione già pericolosa. Un simile conflitto potrebbe rapidamente estendersi. Gli Stati Uniti, costretti a difendere Israele, potrebbero entrare direttamente nella mischia. Gli alleati non statali dell’Iran potrebbero diventare ancora più violenti e bellicosi. L’Iran potrebbe allinearsi ulteriormente con la Cina e la Russia”.

È una situazione molto delicata, e per Vaez anche i discorsi occidentali sull’inasprimento delle sanzioni “potrebbero spingere Teheran a coordinarsi maggiormente con Pechino e Mosca. E non essendo riuscito a respingere ulteriori attacchi israeliani attraverso i suoi alleati regionali e le sue armi convenzionali, Teheran potrebbe tentare di usare il suo avanzatissimo programma nucleare per produrre un’arma nucleare”.

Ma l’escalation iraniana ha prodotto un rinnovato spirito di unione attorno a Israele, soprattutto in Occidente, dove precedentemente l’atteggiamento nei confronti della guerra nella Striscia di Gaza era molto più freddo se non critico. E inoltre, gli Stati Uniti stanno i pensando di concentrarsi sulle relazioni petrolifere tra Teheran e Pechino: l’Iran ha venduto più petrolio che mai negli ultimi sei anni, e quasi tutto alla Cina. Teheran ha imparato l’arte dell’elusione delle sanzioni: “Se l’amministrazione Biden vuole davvero avere un impatto, deve spostare il concentrarsi sulla Cina”, scrive il Financial Times.

Ma la leadership israeliana potrebbe non accontentarsi. In una mossa carica di simbolismo, il Capo di Stato Maggiore militare israeliano Herzi Halevi ha dichiarato lunedì dalla base aerea di Nevatim, uno dei principali obiettivi dell’attacco iraniano (sebbene colpito in modo minimo), che Israele si sarebbe vendicato. La dichiarazione di Halevi è giunta in mezzo a notizie affrettate dei media israeliani e statunitensi secondo cui un attacco israeliano di rappresaglia potrebbe essere imminente.

L’amministrazione Biden, da parte sua, ha messo in guardia Israele da una rappresaglia che potrebbe scatenare una guerra regionale. Qualcosa a favore della responsabilità e della stabilità potrebbe uscire anche nella dichiarazione finale della ministeriale G7, dicono le fonti. Israele ha cercato di rassicurare i suoi vicini arabi che qualsiasi risposta non avrebbe messo a rischio il loro territorio. Il rischio è che qualsiasi azione intrapresa da Israele contro le sollecitazioni dei partner occidentali e arabi, che hanno aiutato lo Stato ebraico a proteggersi con clamoroso successo dall’attacco iraniano di domenica, possa vanificare la nascente alleanza di difesa aerea del Medio Oriente guidata dagli Stati Uniti.

Si tratta di un progetto strategico di cui si parla da metà 2022, lanciato come idea proprio da Israele e avallato dagli Stati Uniti sotto la sigla Mead, Middle East Air Defense Ally. Si basa sull’integrazione delle risorse di sorveglianza e di difesa missilistica tra gli Stati Uniti e gli alleati regionali, sono già stati avviati piccoli programmi operativi mentre si discute da tempo di trasferire pezzi dell’Iron Dome israeliano in Arabia Saudita – processo che rientra nella normalizzazione tra Gerusalemme e Riad che la guerra israeliana a Gaza ha complicato.

Il dilemma su pro, contro e rischi è stato messo in testa al ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant, dopo la telefonata con il capo del Pentagono, Lloyd Austin, di lunedì – tra le ragioni che hanno frenato proprio in quel giorno Israele. L’opportunità di stabilire una coalizione internazionale e un’alleanza strategica per contrastare la minaccia posta dall’Iran, per Israele, per la regione e per gli Stati Uniti, guida il momento. Resta che Israele vede l’Iran – e in particolare i Pasdaran – come origine dei propri problemi con Hamas e con Hezbollah. È questa la ragione madre per cui tra dicembre e marzo ha ucciso circa una dozzina di comandanti e operativi del Sepah e delle sue forze speciali Quds tra Siria e Libano. Hajizadeh sarà il prossimo? La sua eliminazione sarà una vendetta sufficiente?

Dilemma Israele. Colpire i Pasdaran o strategia regionale?

C’è in ballo la possibilità di creare un sistema di protezione aerea regionale, e di deterrenza, che limiterà le attività dell’Iran: per questo Israele sta riflettendo sul contrattacco. Potrebbe accontentarsi di eliminare il generale Hajizadeh, capo delle operazioni aeree dei Pasdaran? Il rischio è anche che un Iran colpito pesantemente finisca per diventare un satellite di Russia e Cina. Di tutto questo si parla anche al G7 di Capri

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