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Il vizio dell’illusione e del trucco non è mai passato di moda in Cina, tanto è vero che statistiche e stime godono sempre di un certo beneficio del dubbio. Se ne sono accorti molti economisti, in primis quelli che il Dragone e i suoi coni d’ombra li conoscono fin troppo bene. Tra questi, Michael Pettis, analista ed esperto del Carnegie. Per il quale il grande male cinese non è tanto il debito, corporate o pubblico che sia e che rimane pur sempre un grande problema. Ma non il problema. E Pettis, ha scoperto le carte.

Il punto di partenza è più o meno questo. Quello che sta gonfiando a dismisura il debito cinese è l’errata contabilizzazione delle perdite sui bilanci, pubblici o privati fa poca differenza. In pratica, quando un investimento non rende quello che deve, svalutandosi e producendo perdite, il governo non riconosce tali passività, bensì le equipara a capitale investito. E così, almeno da un punto di vista ufficiale, la perdita viene mascherata da investimento o comunque capitale buono. Un po’ come mettere la polvere sotto il tappeto, insomma.

“Il vero problema della Cina sono le perdite cumulative ma non riconosciute e associate all’errata allocazione degli investimenti: è importante capire che i problemi emergono dal lato patrimoniale. Questo perché le perdite associate alla svalutazione degli investimenti, mal calibrati o concepiti, sono state capitalizzate, anziché riconosciute”, scrive Pettis. “Nella corretta contabilità, le perdite sugli investimenti sono trattate come spese, che si traducono in una riduzione degli utili e del capitale netto. Se, tuttavia, l’entità responsabile dell’errata allocazione dell’investimento (ovvero le autorità cinesi e le imprese, ndr) riesce a evitare di riconoscere la perdita iscrivendo l’investimento in bilancio al costo, ha erroneamente capitalizzato le perdite , trasformando cioè quella che avrebbe dovuto essere una spesa in un’attività fittizia”.

Un trucco, bello e buono. “Il risultato è che l’entità riporterà utili più elevati di quanto dovrebbe, insieme a un valore totale delle attività più elevato. Ma questo asset fittizio per definizione non è in grado di generare rendimenti e quindi non può essere utilizzato per onorare il debito che lo ha finanziato. In un’economia in cui la maggior parte delle attività avviene sotto rigidi vincoli di bilancio, questo è un problema che si autocorregge. Le entità che sistematicamente allocano in modo errato gli investimenti sono costrette alla bancarotta, durante la quale il valore delle attività viene svalutato e le perdite riconosciute e assegnate. Ma non in Cina”.

Tutto questo mentre il collasso del mercato immobiliare sta polverizzando la ricchezza delle famiglie del Dragone, la cui maggioranza è proprietaria di un immobile. E così la crisi finanziaria si scarica sulla vita di tutti i giorni. Dalla crisi finanziaria alla crisi di un’intera classe il passo è breve se il Paese è la Cina. Che un terzo del Pil del Dragone, quello che risponde al nome di mattone, fosse ormai in pieno smottamento è noto. Così come sono noti i numerosi tentativi, fin qui falliti, del governo di rianimare il comparto immobiliare nazionale.

Ma forse qualcuno non aveva calcolato un fatto: il 70% dei cinesi è proprietario di casa. Questo significa che se un intero mercato collassa, come in effetti è avvenuto, il prezzo degli immobili si erode, facendo perdere ricchezza alle famiglie. Il discorso vale certamente per ogni economia avanzata. Ma se sette cinesi su dieci si ritrovano il proprio patrimonio deprezzato, allora a Pechino hanno un problema. Anzi due.

Trucchi cinesi. Così Pechino maschera le perdite e genera debito

Il vero problema della Cina non è tanto il debito, quanto la sua fonte. Imprese e governo quando un investimento fa flop, invece di contabilizzare le perdite, le trasformano in capitale. E così il buco aumenta, senza che nessuno se ne accorga. O quasi

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