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Venezia – Scena classica di ospedale con donna che sta partorendo. Solo che l’ostetrica si avvicina alla puerpera e sconsolata ammette: “Non vuole uscire, anzi dice che vuole tornare da dove è venuto, perché il mondo è una merda”. A questo punto chiamano Silverio, il padre, ad assistere al ritorno del “non-neonato” in utero. Il film “Bardo” di Alejandro González Iñárritu comincia così. Se finisse qui avrebbe già detto meglio di trattato di psicoanalisi.

Il protagonista è Silverio. Silverio è più di un personaggio principale. In “Bardo” vediamo la soggettività di Silverio come l’ombelico di ogni singola immagine. Compresa ovviamente quella del non-neonato “sentito” da Silverio come colui che, vista la mala parata, preferisce “tornare dentro”. Durante il film si scoprirà che Silverio e la moglie aspettavano un primo figlio, morto poco dopo la nascita (qui un riferimento autobiografico del regista). Ma il punto non è (solo) il lutto mancato per questa particolare perdita. Semmai la storia di come Silverio se la racconta è la sintesi della postura di Silverio rispetto al mondo.

Silverio, di mestiere, fa il giornalista documentarista. Nel film, è come se facesse il documentarista di sé stesso. Bardo parla del luogo da cui scaturiscono i documentari di Silverio (compreso dunque il film). Lui che è un messicano, vive a Los Angeles negli agi, ma ha appena vinto un importante award per i suoi reportage impegnati sulla migrazione e sulle sofferenze del suo popolo, si sente un impostore.

Nel buddismo Bardo indica lo stato intermedio tra morte e rinascita. Ma in Bardo la linea di confine, quella reale, che c’è tra il Messico e gli Stati Uniti è più di una metafora. E’ la condizione disumana di disparità che va denunciata. Se sei un giornalista che crede nella forza della testimonianza. Ma qui subito la delusione: nel momento in cui Silverio attua denuncia, entra nel meccanismo dello show-business. Si arricchisce, ha successo. E’ nel grande mercato consumistico che quella stessa condizione ha creato.

All’inizio del film assistiamo all’annuncio del trattato storico Usa-Messico per la compravendita dello stato della Baja California da parte di Amazon. A Silverio viene offerto di intervistare il presidente degli Stati Uniti, a patto che lui parli bene della transazione. Rifiuta. Ma resta il senso di delusione verso la propria condizione paradossale di essere umano comunque “compromesso” e “contraddittorio”. Così vediamo i due figli adolescenti che lo mettono in difficoltà quando rivendicano il proprio diritto di parlare americano, anziché spagnolo in casa, visto che sono nati in Usa. Subito dopo vediamo l’intervista escluisiva di Silverio al re dei super-detenuti narcotrafficanti (una sorta di El Chapo). Il giornalista fa lo scoop e presenta il mostro al mondo. Ma al mostro viene dato spazio di parola e lui se lo prende: “Siamo nell’epoca dei post-miserabili”, dice, “ora siamo ci siamo organizzati e vinciamo noi, perché siamo più veloci, meno burocratizzati e più adattabili di tutti”.

Tutto questo prima dell’altra immagine indimenticabile del film: una piramide composta dai corpi delle migliaia di persone morte nella terra di nessuno del confine che Silverio – qui la pellicola si fa onirica – comincia a scalare. Solo arrivato in cima alla massa dei corpi scoprirà che non sono morti, ma intrappolati per sempre nel Bardo.

In un certo senso questo è proprio un film di elaborazione del trauma, dove il confine per la transizione da quanto si cerca di lasciare alla rinascita è di per sé problematico. Bloccato da una logica binaria, americano o messicano, invasore o invaso.

Il film racconta la crisi esistenziale di Silverio, del suo Paese e, più in generale, la condizione contemporanea. Come in una serie di associazioni, l’uomo ripercorre i frammenti del passato, la propria identità, il successo, la fragilità della vita, i giochi collusivi tra Messico e Usa. Sono i profondi e complessi legami con la moglie e i figli a ribilanciare il senso di colpa e a delusione. E’ attraverso gli incontri-scontri familiari, coniugali e amicali, cui si somma quello verso con il popolo della sua madre-patria che il documentarista può cominciare a dirsi che da sempre ha costruito una “storia falsa per dire alcune cose vere”.

Iñárritu adotta una grammatica onirica. “Spero che Fellini protegga questo film!”, ha detto in conferenza stampa. E poi: «Bardo non è la mia autobiografia, che sarebbe stata noiosissima, ma un’emografia, una biografia emozionale dove la realtà e il sogno si influenzano l’un l’altra, a ripercorrere cose vissute, o forse solo sognate. Del resto sono stati proprio registi come Federico Fellini, Luis Buñuel, Roy Andersson e Alejandro Jodorowsky, capaci di mescolare il mondo onirico al cinema, che hanno dimostrato come i film siano fatti della stessa materia dei sogni, giocando liberamente con il tempo e lo spazio essendo entrambi frutto del nostro inconscio».

Ma al di là delle dichiarazioni di intenti, Iñárritu fa un’operazione articolata: espande il discorso filmico nell’immaginario, ma ogni volta riporta a terra, col reale, inesorabilmente. Attraverso il deserto, dei suoi vissuti, e del Messico. Disseminando però alla fine quel terreno arido di tanti azioni che, se non sono pure, restano comunque umane.

Un Bardo a Venezia, cronaca falsa di alcune cose vere

Il film di Alejandro González Iñárritu racconta la crisi esistenziale di Silverio, del suo Paese e, più in generale, la condizione contemporanea. Come in una serie di associazioni, l’uomo ripercorre i frammenti del passato, la propria identità, il successo, la fragilità della vita, i giochi collusivi tra Messico e Usa. Da Venezia, Chiara Buoncristiani

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