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Sin dall’infanzia capiamo come il gioco del calcio sia lo sport democratico per eccellenza. Basta un pallone, ma se serve ci si ingegna anche a costruirne uno usando qualsiasi materiale utile a formare qualcosa che somigli a una palla. Per le porte bastano le serrande di un negozio, un cancello o un paio di zaini. Se non c’è un rettangolo d’erba va bene anche la terra, l’asfalto di una strada o la spiaggia. 

Poi, chi si cimenta a scalare i ripidi gradini del professionismo si accorge di come il calcio diventi via via un contesto sempre meno democratico, dove di norma chi ha più soldi vince di più. E la storia recente del calcio italiano conferma in pieno questo principio. Quando i soldi arrivavano principalmente dal botteghino e dal Totocalcio, prima dell’esplosione dei diritti televisivi, i club italiani erano protagonisti delle competizioni europee. Tra il 1983 e il 1998, un club italiano è arrivato in finale di Champions league 12 volte su 16, (il 75% delle edizioni), e nel caso dell’Europa league, tra il 1989 e il 1999 addirittura 10 volte su 11, con 7 squadre diverse, portando a casa il trofeo in 7 edizioni. Nelle 23 edizioni successive, tra il 1999 e il 2022, i club italiani hanno raggiunto la finale di Champions solo 7 volte, e una sola volta in Europa league.

Chi ha più soldi vince, dunque. È l’ineluttabile legge del mercato, applicabile a qualsiasi industria, pensano in molti. Ma il calcio prima di essere un’industria è un’esperienza culturale collettiva e il compito prioritario della Fifa è rafforzare la qualità del prodotto senza snaturarne i princìpi di democraticità, bilanciando il più possibile la crescita economica del comparto industriale con la tutela della competizione atletica, garantendo una crescita inclusiva e sostenibile a beneficio di chi lavora nel calcio e di tutti coloro che lo vivono come passione.

In passato ho avuto modo di affermare che abbiamo bisogno di 50 club in grado di vincere, non solo 5 o 6, e tutti europei, come avvenuto finora. Poi magari 20 di questi 50 saranno europei, che mi sembra comunque meglio della situazione attuale. E non c’è dubbio sul fatto che per aumentare la competitività e lo spettacolo del calcio occorra investire innanzitutto sul capitale umano, spendendo di più e meglio nella ricerca e nello sviluppo del talento sportivo. 

Ogni professionista del calcio ha cominciato giocando a pallone da bambino, passando dal cortile della scuola ai campetti delle accademie, e poi dai piccoli impianti delle squadre amatoriali e giovanili al tappeto erboso della squadra delle leghe principali, e ciò anche grazie al prezioso lavoro degli allenatori, dei club e delle federazioni nazionali. Quali infrastrutture e mezzi tecnici sono a disposizione dei giovani talenti? Di quali conoscenze possono avvalersi in un contesto che evolve velocemente grazie alla tecnologia? Sono queste le domande cui siamo tenuti a rispondere oggi. E per farlo concretamente è necessario migliorare la redistribuzione dei proventi generati dal calcio d’élite lungo la catena del valore che garantisce l’afflusso costante negli stadi internazionali di atleti dalle performance eccezionali. 

È questo il presupposto sul quale dal 2001 sono stati introdotti meccanismi cosiddetti di “solidarietà” che comprendono istituti come la solidarity contribution e la training compensation. Le tendenze più recenti del calciomercato hanno però ridotto l’efficacia di questi meccanismi. Basti considerare come, rispetto al complessivo valore reale dei calciatori trasferiti, l’attuale sistema di solidarietà riesca a trasferire risorse marginali che nel complesso hanno raccolto nel 2020 circa 50 milioni di dollari, pari allo 0,89% dei 5,6 miliardi di dollari di pagamenti effettuati. Senza considerare che i disaccordi in merito agli importi da pagare hanno determinato nel solo 2020 oltre duemila contenziosi cui si aggiungono quelli per mancati pagamenti.

Insomma, il sistema di solidarietà va rivisto in chiave di maggiore efficacia. Con questo obiettivo la Fifa sta studiando nuovi criteri in grado di redistribuire in maniera equa ed efficace una componente maggiore del valore generato dai calciatori lungo il loro ciclo di vita professionale. Più risorse da destinare alle realtà calcistiche alla base della piramide, accademie specializzate nella formazione del talento, in grado di creare valore per l’intero comparto. A tal riguardo anche l’introduzione di un metodo di calcolo del fair value dei calciatori, indipendente dal loro prezzo di mercato, potrà essere di grande beneficio per l’intero sistema.

Allo stesso tempo è necessaria una riflessione sugli interventi in grado di fornire maggiore stabilità al sistema calcio nel lungo periodo. Strumenti che comportino soprattutto una maggiore trasparenza, capace di attrarre nuovi investimenti nell’industria calcistica e favorire un più equilibrato accesso al credito da parte dei club. Maggiore sostenibilità e maggiore trasparenza sono le strade che la Fifa intende intraprendere in costante dialogo con tutti gli stakeholder del calcio, per trovare insieme le risposte più efficaci all’incertezza della fase post-pandemica.

Per il calcio la sfida va oltre la legge del mercato. Scrive Infantino (Fifa)

Di Giovanni Infantino

La storia recente del calcio italiano mostra un contesto sempre meno democratico, dove di norma chi ha più soldi vince di più. È l’ineluttabile legge del mercato, applicabile a qualsiasi industria, pensano in molti. Ma il calcio è anche un’esperienza culturale collettiva ed è importante rafforzare la qualità del prodotto senza snaturarne i princìpi di democraticità. L’articolo del presidente Fifa pubblicato dalla rivista Formiche di giugno 2022

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