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Fin dal giorno dello scioglimento delle Camere la coalizione che tutti i sondaggi danno vincente ha innervato la campagna elettorale sull’abbrivio del presidenzialismo. Per primo, come sempre, è arrivato Silvio Berlusconi: se passa quella riforma, ha spiegato, Sergio Mattarella si deve dimettere. Adesso è la volta di Giorgia Meloni: se FdI è il primo partito, puntalizza, non può non darmi l’incarico di formare il governo. Più flebile, ma non meno acuminata, la voce di Matteo Salvini: prima contiamo i voti e poi lasciamo decidere al Colle.

È come se la triade FdI-Lega-FI, consapevole o convinta di avere i numeri dalla sua parte, ponesse sullo sfondo la battaglia contro il centrosinistra per concentrarsi sul Rubicone da attraversare per essere legittimata a governare: il via libera del Quirinale.

Forse è vero che così facendo ognuno dei tre partiti si rivolge più ai rispettivi alleati che al Capo dello Stato. Ma è un fatto che le prerogative che la Costituzione (!) e non un arbitrìo tattico conferisce al presidente della Repubblica vengono trattate come se fossero un patrimonio, a suo piacimento spendibile e sfruttabile, del risultato elettorale invece che un perimetro di regole che servono a non far deragliare dallo Stato di diritto.

Come già sottolineato su queste colonne, il presidenzialismo non è un incubo da esorcizzare. È una architettura istituzionale e un sistema di governo pienamente legittimi e funzionante in Paesi che non possono certo definirsi antidemocratici: dalla Francia agli Stati Uniti. Nessuna demonizzazione quindi, ma neppure un uso scriteriato da spot di un delicatissimo meccanismo di principi e leggi che definiscono il perimetro dell’esercizio del potere.

Nel nostro sistema, il Presidente della Repubblica è un organo di garanzia. Un arbitro che fa rispettare le regole e rappresenta l’unità nazionale. Un punto di equilibrio dunque non l’estrinsecazione di una parte, emanazione del segmento che ha vinto le elezioni o esso stesso espressione di quel voto. Rappresenta il tutto, non una parte. Per comodità di ragionamento, mettiamo sullo sfondo l’esercizio “a fisarmonica” dei suoi poteri, funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto. Il punto è che il Colle regolamenta il gioco politico senza farne parte. Cosa che invece non è nei sistemi presidenziali, dove chi è eletto direttamente alla carica è espressione di una fetta maggioritaria dell’elettorato e si muove e agisce in quell’ambito ovviamente rispettando i paletti istituzionali che evitano tentazioni o scivolamenti verso le cosiddette “democrature”.

Se è così, l’indicazione di Berlusconi è improponibile. Non ha senso, infatti, sostenere che una volta instaurato il regime presidenziale – senza peraltro indicare in che termini e con quali modifiche costituzionali – Mattarella si deve dimettere per poi tornare in sella una volta votato dal popolo. Passare da arbitro a giocatore nell’ambito della partita è un ossimoro piuttosto inquietante.

E lo stesso vale per Giorgia Meloni. Proprio perché figura di garanzia, per il Presidente non può esistere un automatismo che ne limita o addirittura annulla le prerogative. Non possono esistere obblighi ma solo scelte nell’alveo della Costituzione. È evidente che il Capo dello Stato non può non tener conto delle indicazioni del corpo elettorale. Ma è altrettanto evidente che una volta chiuse le urne si avvia una partita diversa che segue canoni precisi e con esiti che non possono essere precostituiti.

Ma forse la questione è anche più profonda e la nota con la quale il Quirinale esprime “stupore” per certe autocandidature è illuminante. All’inizio della legislatura che si è appena conclusa, fu l’allora capo politico del M5S trionfante a valanga nei seggi, Luigi Di Maio, a chiedere l‘impeachment di Mattarella che aveva esercitato i suoi poteri rifiutando il via libera ad alcuni ministri in specifici incarichi. Accadde “dopo” il voto: adesso i tempi vengono anticipati. In ambedue i casi si tratta della volontà di piegare i connotati istituzionali del Quirinale adattandoli alle esigenze dei vincitori di una elezione. Il bilanciamento dei poteri che sostiene la nostra democrazia non reggerebbe all’impatto di un urto simile. Al tempo stesso squaderna l’ambizione di chi prevale in una specifica fase a modificare le regole a proprio vantaggio. Meglio stare attenti. Meglio lasciar perdere. L’Italia si appresta ad affrontare un passaggio politico-economico di grande difficoltà. Avere una boa solida in un mare tempestoso è un vantaggio, non un impedimento.

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