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Gli anni trascorrono, ma l’opera di edificazione della Chiesa globale non conosce pausa né rallentamento. Tra le riforme di Francesco questa è la più evidente. La Chiesa globale prende forma soprattutto nella composizione del nuovo collegio cardinalizio, al quale Francesco aggiunge altri tasselli importantissimi. C’erano una volta le “sedi cardinalizie”, i grandi blocchi continentali erano costituiti dagli arcivescovi più in vista nelle città leader di Stati Uniti, Europa, grandi Paesi latinoamericani e vieppiù anche l’Africa. Ora le sedi cardinalizie spariscono, emergono le periferie. Così arriva nel Collegio anche la Chiesa della Mongolia: chi lo sapeva che ci fosse?

Questa Chiesa che vive sulla soglia, come dice Massimo Faggioli, la varca a ogni tornata di nomine cardinalizie per andare sempre più “verso quei mondi” che portano voci, esperienze, visioni, comprensioni, a un centro che diviene così sempre più ricco, globale e quindi anche periferia in sé rispetto a questi numerosi nuovi centri che spiegano il mondo. È un’altra globalizzazione quella di Francesco: la sua Chiesa globale non appiattisce le differenze, rendendoci tutti uguali, al contrario le esalta, le fa emergere, rendendo il centro sempre diverso, più ricco.

Il lavoro ovviamente non prescinde dalle esigenze “strutturali” che Francesco non trascura, ovviamente. Così tra i nuovi cardinali non si può non dire subito che ci sono tre capi Dicastero della Curia romana. Sono l’inglese Arthur Roche, prefetto della Congregazione per il Culto Divino; il coreano Lazzaro You Heung-sik, prefetto della Congregazione del Clero; lo spagnolo Fernando Vérgez Alzaga, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e Governatorato. Ma se questo serve a far funzionare il rapporto tra collegio e uffici curiali, sono le nomine delle realtà emergenti a fare la parte del leone per creare l’incontro delle periferie. Leggiamo i nomi e i luoghi d’origine degli altri cardinali elettori: Jean-Marc Avelin, arcivescovo di Marsiglia; Peter Ebere Okpaleke, vescovo di Ekwulobia, in Nigeria; Leonardo Steiner, arcivescovo di Manhaus, in Brasile; Filipe Neri António Sebastião do Rosário Ferrão, arcivescovo di Goa e Damao, India; Robert W. McElroy, vescovo di San Diego, Usa; Virgílio do Carmo da Silva, arcivescovo di Timor orientale; Oscar Cantoni, vescovo di Como, Italia; Anthony Poola, arcivescovo di Hyderabad, India; Paulo César Costa, arcivescovo di Brasilia; Richard Kuuia Baawobr, arcivescovo di Wa, Ghana; William Seng Chye Goh, arcivescovo di Singapore; Adalberto Martínez Flores, arcivescovo di Asuncion, Paraguay; Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia. È quest’ultimo, con i suoi 48 anni, il più giovane dei nuovi porporati.

Indubbiamente i nomi contano, conteranno, l’identità e la storia di ogni prescelto pesa, peserà, impossibile pensare il contrario. Ma è la storia di Manhaus, di Ekwulobia, di Goa, di Timor Est, di Singapore, di Asuncion, a indicarci la soglia che Francesco vede, attraversa, conosce, vive. La sua Chiesa non è fatta di conservatori e progressisti, ci saranno anche quelli, ma il rapporto decisivo è quello tra centro e periferia, tra periferie che diventano centro e il centro che si innesca in sempre nuove e più numerose periferie. Il criterio che ispira l’edificazione di questo Sacro Collegio è la riforma meglio riuscita, probabilmente, tra le tante riforme che stanno costruendo la Chiesa globale di Francesco.

La Chiesa, i cardinali e il Collegio globale che pone le periferie al centro

La Chiesa di papa Francesco non è fatta di conservatori e progressisti, ci saranno anche quelli, ma il rapporto decisivo è quello tra centro e periferia, tra periferie che diventano centro e il centro che si innesca in sempre nuove e più numerose periferie

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