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Nel 2005, Fabrizio Ferraro, Jeffrey Pfeffer e Robert Sutton, tre eminenti professori, il primo dello IESE Business School, gli altri dell’Università di Stanford, hanno pubblicato un articolo intitolato “linguaggio economico e assunzioni: come le teorie si autoavverano.

Questo interessante lavoro scientifico mostra come l’emergenza di un modello teorico porti spesso alla sua conferma nel mondo reale perché le persone acquisiscono, nel linguaggio, nelle norme sociali, nelle dinamiche istituzionali e nei comportamenti, le indicazioni della teoria stessa come se fossero verità inoppugnabili. Detto in altri termini, è come se il modello diventasse l’unico modo di vedere la realtà per cui le persone cominciano a comportarsi coerentemente col modello stesso.

Ogni volta che torno in Italia, per me luogo di rientro da oramai 20 anni, non posso far a meno di pensare al lavoro di Fabrizio e dei suoi coautori. Guardo, con stupore e preoccupazione, soprattutto i giovani del Sud che descrivono troppo spesso e troppo frequentemente l’Italia come un Paese senza speranza, senza opportunità, “buono solo per andar via”.

Durante i seminari, che offro gratuitamente su temi di imprenditorialità ed imprenditorialità sociale in alcune università del Sud, questo “sentimento” diventa ancora più evidente. Mi scontro ogni volta con giovani scoraggiati, fortemente demotivati. Potrei dividerli molto semplicemente (e inaccuratamente), in due grandi categorie: quelli “del posto fisso”, pubblico o privato che sia, e quelli del “me ne vado appena finisco di studiare”.

Il paradigma che soggiace a queste due grandi categorie è, però, lo stesso: l’Italia è un Paese dove niente funziona, dove l’imprenditoria non ha futuro, dove l’iniziativa non è premiata, etc. etc.  Meglio cercare un posticino tranquillo e sicuro o emigrare quanto più lontano possibile.

Durante le lezioni, la presentazione di casi di successo nel meridione d’Italia, che sono tantissimi e spesso assai interessanti a livello manageriale e teorico, viene rapidamente bollata dalla maggioranza degli studenti come “casi unici ed eroici”.

Dopo qualche riflessione, allo stupore è seguita un’amara considerazione. Ciò che sento nelle aule universitarie è nient’altro che l’eco di quanto generazioni di genitori hanno ripetuto per anni: “È una terra senza speranza”, “fa tutto schifo”, “è impossibile vivere qui”, e così via.

Le chiacchierate con molti miei cari amici d’infanzia, persone che sento come fratelli e sorelle di sangue, scivolano troppo spesso in una ben nota liturgia delle lamentele: il traffico, le infrastrutture, la burocrazia, la crisi, etc. etc.

Ritrovo sempre in queste discussioni il Paese miraggio: una volta è l’Argentina, un’altra l’America, negli ultimi tempi va molto di moda il Portogallo. Il problema è che i miei interlocutori ignorano i tassi di inflazione dell’Argentina, i problemi del settore sanitario portoghese, che hanno fatto scappare a gambe levate decine di pensionati italiani al primo problema di salute serio, o le manchevolezze del sistema sanitario pubblico americano, anni luce indietro rispetto quello italiano.

Ci sono generazioni intere di italiani che sono state sottoposte a questo indottrinamento sub-culturale: dimentichiamo che l’Italia è la seconda potenza industriale d’Europa, dimentichiamo che l’Italia segna anno dopo anno fior di record sull’export, dimentichiamo che i nostri prodotti e servizi sono riconosciuti in tutto il mondo per la qualità e unica eleganza. Ci si focalizza troppo spesso sui problemi omettendo accuratamente le grandi opportunità del nostro Paese.

Credo che in Italia il problema della sub-cultura della lamentela, il modello dell’Italia “è un Paese da cui scappare”, sia sottostimato. Riporto un estratto di una relazione di un manager americano al termine di un lungo periodo lavorativo in Italia: “Gli italiani hanno solo un problema: si lamentano troppo e amano ripetere di vivere in un contesto ben peggiore di quello che è in realtà”.

La subcultura della lamentela demotiva le persone capaci, giustifica all’inazione chi non ha voglia di fare e, soprattutto, limita la capacità di identificare le grandi opportunità che il nostro Paese offre. Ma i danni causati da tale approccio sub-culturale sono ben più seri.

Un recente articolo, che ho pubblicato con Valeria Cavotta e Guido Palazzo, ha mostrato come l’esagerata rappresentazione dei problemi relativi ad una “situazione” economico-sociale (problem augmentation), tipico della nostra cultura meridionale, e non solo, ha molteplici conseguenze negative sulla soluzione dei problemi stessi (lo studio analizzava non a caso la risposta istituzionale al versamento di residui urbani ed industriali nella cosiddetta “Terra dei Fuochi”). Ma torniamo a noi.

Non mi stupisco più quando constato che, nella discussione di un caso di studio, i ragazzi del sud si focalizzano più sui problemi che sulle opportunità. Mi sono convinto che sono vittime di un “avvelenamento culturale”. Forse bisognerebbe ripetere continuamente le tante storie di imprenditori di successo che senza capitali, senza raccomandazioni, senza amicizie con il politico di turno o, chissà cos’altro, hanno costruito tante realtà imprenditoriali di successo.

Barbara, una ragazza francese, ha avviato un’azienda di wedding planning per stranieri in Puglia. La sua azienda va a gonfie vele attraendo clienti stranieri e mostrando il meglio del nostro Paese. Basta fare un salto sulle pendici dell’Etna per trovare tanti imprenditori stranieri che, partendo senza risorse o con capitali limitatissimi, hanno avviato imprese di successo nel settore dell’agrofood. Luca, dopo anni di lavoro all’estero, è tornato nel sud d’Italia e ha acquisito contratti in tutta Italia per oltre 70 milioni di euro. Un gruppo di tre giovani agronomi siciliani ha sfidato le multinazionali del settore dei semi creando un efficiente laboratorio di ricerca e sviluppo che offre servizi per aziende del centro Europa e del Nord America. Michele, dopo l’esperienza nella consulenza strategica ed un MBA internazionale, è tornato a casa ed in pochi anni ha raddoppiato il fatturato dell’azienda di famiglia.

Devo continuare?

Credo che queste siano le storie che dovremmo raccontare, ripetere ai nostri figli, sui cui la stampa dovrebbe porre maggiore attenzione. Se continueremo a focalizzarci sulle cose che non vanno, ad ingigantire i problemi, il bicchiere mezzo pieno diventerà completamente vuoto perché la teoria pessimista finirà per avverarsi.

È arrivato il momento di cambiare paradigma. I problemi ci sono e sono tanti, ma le possibilità imprenditoriali e professionali sono molte di più. Sta a noi cambiare la narrazione per il bene del futuro più prossimo e, soprattutto, per le generazioni che verranno.

È una questione di responsabilità civile, economica e culturale. A buon intenditor, poche parole.

Le teorie pessimiste che si autoavverano

Di Antonino Vaccaro

L’Italia è un Paese dove niente funziona, dove l’imprenditoria non ha futuro, dove l’iniziativa non è premiata. Ma è davvero così? Non secondo Antonino Vaccaro, professore ordinario e direttore del Center for Business in Society presso lo IESE Business School di Barcellona, membro del comitato scientifico e presidente della commissione per l’internazionalizzazione della Società italiana di Intelligence

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