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Un profilo probabilmente automatizzato risponde al post su Facebook in cui il Corriere della Sera condivide l’intervista al professor Ugur Sahin, co-fondatore di BioNTech che con Pfizer sta sviluppando il farmaco vaccinale contro il Covid: “Io il vaccino lo farò solo dopo che sarà certificato che lo hanno fatto tutti i politici, tutti i medici, tutti i giornalisti e anche i benetton (minuscolo, ndr)”. Un altro utente risponde alla notizia data dal New York Times che racconta come la Moderna, un’altra azienda farmaceutica statunitense, abbia superato l’efficacia del 90 per cento dicendo che lui non ci credeva e che era tutta una manipolazione delle aziende farmaceutiche (la situazione attuale, il vaccino, eccetera: una nenia ultra nota alla quale forse non è il caso di fare ulteriore pubblicità).

Va detto che insieme a questi commenti ci sono tanti, tantissimi altri utenti che accolgono con soddisfazione il siero, o i sieri, che potrebbero sconfiggere la pandemia. Così come in tanti hanno ringraziato il professore Roberto Burioni per l’eccezionale divulgazione durante “Che tempo che fa” (di domenica 15 novembre) del nuovo vaccino a m-RNA contro Covid-19 (si parlava di quello di Pfizer nello specifico, qui il link). Ma mentre ascoltavo la voce rassicurante del più mediatico ed efficace dei virologi italiani, avevo in mente una domanda: siamo pronti? Chiaramente non al vaccino, su cui tutte le persone sensate stanno sperando (in fretta e in modo al massimo funzionale), ma alla tempesta perfetta che il vaccino innescherà.

C’è una nuova malattia (che a distanza di una dozzina di mesi dalla comparsa ancora non conosciamo così a fondo e non abbiamo pensato metodi per contenerla). C’è un nuovo vaccino. C’è un nuovo modo di vivere al quale, volens ut nolens, anche gli scettici hanno dovuto adattarsi (certamente in molti casi più per decreto che per comprensione) e tutte le altre persone trovano tutt’altro che piacevole. Provo a spiegarmi con un altro esempio: una virogola italiana, Cristina Cassetti, vicedirettrice della divisione ‘Microbiology and Infectious Disease’ dell’Istituto per le malattie Infettive guidato da Anthony Fauci (il virologo-in-chief della Casa Bianca), ha anticipato due giorni fa all’Ansa un’altra notizia apparentemente straordinaria: negli Stati Uniti i primi vaccini saranno pronti già a dicembre. Un’utente Facebook risponde all’articolo dell’agenzia italiano con un “fatelo voi, va”.

Quello che sta succedendo è soltanto un assaggio, un antipasto di quanto accadrà. Ci saranno gli eccessi di entusiasmo, ci saranno le bufale-come-le-chiamiamo-adesso (le fake news), ci saranno svariate teorie del complotto. Ci saranno utenti che prenderanno posizioni individuali, ci saranno bot diretti da chi per interesse vuole creare caos, ci saranno operazioni di info-war. Il clima è articolato e complesso: per essere chiari, il figlio dell’ancora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump jr (uno che non è nuovo al cospirazionismo e che proprio per fake news sul coronavirus ha avuto l’account bloccato da Twitter, come il padre) ha twittato dubbi sul tempismo con cui Pfizer ha dato la notizia sulle eccezionali evoluzioni del suo medicinale. Secondo lui l’azienda lo avrebbe fatto per facilitare Joe Biden, vincitore democratico di Usa2020 – che se la notizia fosse uscita pochi giorni prima avrebbe avuto un esito diverso, a dire del figlio dello sconfitto.

In quelle stesse ore questa ricostruzione – spinta anche da altre personalità repubblicane, come il senatore texano Ted Cruz – rimbalzava in mezzo mondo tramite i social network, che sono lo spazio più a rischio per certe cose. In un bel pezzo su Recode di Vox, Rebecca Heilweill (una giornalista che si occupa di nuove tecnologie), si chiede se i social network sono pronti per il vaccino, e scrive: “Esperti di salute pubblica e social media hanno dichiarato a Recode che le società di social media dovrebbero aspettarsi che le comunità NoVax utilizzino i social media per capitalizzare le comprensibili preoccupazioni delle persone su un potenziale vaccino Covid-19. Allo stesso tempo, molti saranno confusi e frustrati per la distribuzione del vaccino, e alcuni potrebbero arrabbiarsi quando vedono altri che ricevono un vaccino prima di loro”.

Tutto questo, spiega Heilweill si sommerà alle teorie del complotto e altre informazioni errate che si sono già diffuse sul coronavirus: “Fondamentalmente, potrebbe essere un casino molto, molto complicato”. Il punto non è certamente che non è stato fatto niente: i principali social network – Facebook, Twitter, YouTube – hanno già iniziato a innalzare le fonti attendibili e bannare quelle che spacciano disinformazioni e fake news. Un’attività che ha riguardato la prima ondata come la seconda: il punto è che potrebbe non essere abbastanza. Il problema sta nel creare una conversazione social efficace e costruttiva, possibilmente corretta.

Roberto Burioni sui social network è famoso per le sue risposte caustiche contro gli schiantati, ma è altrettanto abile a darne altre di affidabili a chi pone legittime preoccupazioni. Censurare tutti i dubbi potrebbe non essere efficace, potrebbe anzi innescare un meccanismo perverso che facilita il cospirazionista che sostiene che ci sia qualcosa da nascondere. Spazi per la critica e per i dubbi sono fondamentali, le paure delle persone non possono essere sempre unilateralmente bloccate dalle piattaforme. Inoltre c’è un problema di aspettative che potrebbe rendere le cose più complesse: dalla prima somministrazione di vaccino – le cui notizie inonderanno il web e saranno di per sé un naturale contraltare ai negazionismi su virus e medicinali – ci si aspetta che la nostra vita tornerà rapidamente come prima. E invece non sarà così.

Non è realistico pensare a un effetto-bacchetta-magica: ci vorrà del tempo, niente sarà immediato e ci saranno dei problemi fisiologici. Le prime fiale andranno alle persone più esposte e a quelle più a rischio, e questo potrebbe innescare ulteriori spaccature di carattere sociale all’interno dei vari paesi. Il processo di distribuzione sarà lungo e per niente facile: però anche su questo i social network avranno un ruolo. Come quando nel 1956 Elvis Presley si vaccinò in televisione contro la polio prima di andare in diretta all’ “Ed Sullivan Show”, Facebook e gli altri potranno contribuire a sostenere la necessità della vaccinazione come elemento imprescindibile per la salute pubblica, spirito civico e solidale verso i più deboli. Un dialogo cruciale che passa tanto dal web quanto dalle strutture fisiche e locali del sistema sanitario (e amministrativo).

Tutto sarà ulteriormente complicato da potenziali campagne di disinformazione che non scatteranno per spirito individuale o posizionamenti collettivi, ma anzi troveranno in questi un ottimo trampolino. Sono quelle contro cui diversi paesi – su queste colonne si era parlato del Regno Unito e delle preoccupazioni sulla Russia, per esempio – si stanno già attrezzando. È lì che le attività delle aziende private come quelle dei social media si sommano a quelle delle intelligence, perché questo genere di campagne potrebbe essere orchestrato da attori statuali interessati a sfruttare la situazione come vettore strategico. Il vaccino è l’arma strategica del momento, elemento nevralgico per il rafforzamento di un paese. Da uno studio di Nature su un numero limitato di intervistati (qualcosa più di diecimila) risulta che circa un quarto delle persone hanno perplessità sul vaccinarsi: si tratta di una massa potenzialmente enorme su cui certi paesi già attivi nel mondo della misinformation potrebbero giocare i propri interessi.

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