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Per ragioni tutto sommato comprensibili dai vertici del Partito democratico sono arrivati messaggi precisi nelle ultime due settimane, condensabili in un concetto semplice: a questo governo non vi sono alternative, chi decide di buttarlo giù (Renzi, tanto per fare un nome) otterrà un solo risultato, cioè le elezioni anticipate.

Non è privo di logica questo ragionamento, forte di spiegazioni interne al sistema politico nazionale ma anche di evidenti sostegni di carattere internazionale, che trovano la loro origine nel voto comune di Pd e M5S a favore di Ursula von der Leyen nel luglio dello scorso anno, voto peraltro determinante per l’elezione della nuova presidente della Commissione europea (è passata con 9 “punti” di scarto, quindi senza l’accordo tra italiani non sarebbe stata eletta).

Da quel voto e dalla successiva (e in qualche modo collegata) nascita del governo Conte bis sono però discese alcune conseguenze che oggi diventano essenziali per comprendere a che punto siamo, soprattutto alla luce della tragica emergenza economico-sanitaria in cui è precipitato il mondo (e quindi l’Europa e quindi l’Italia).

Tra di esse (le conseguenze) la principale è di carattere politico ed è ben evidente agli occhi di tutti quelli che vogliono guardare le cose come stanno: il Partito democratico (o, volendo dire meglio, la sinistra italiana) ha ripreso il controllo del governo forte della presenza in quasi tutti i posti chiave dentro e fuori i confini nazionali.

Sono infatti appartenenti a quell’area il Capo dello Stato (Mattarella), il presidente del Parlamento europeo (Sassoli), il Commissario Ue (Gentiloni), il vice presidente del Csm (Ermini), il ministro dell’Economia (Gualtieri), quello delle Infrastrutture e Trasporti (De Micheli) e, cosa non di poco conto visti i tempi, quello della Salute (Speranza).

Non vengono da lì il presidente della Camera (Fico) e il premier (Conte), ma è fuor di dubbio che anche loro hanno trovato un modo assai equilibrato di convivere con il Pd, che, soprattutto per il capo del governo, finisce per essere l’unico punto di riferimento dignitosamente solido, atteso che il partito di provenienza (cioè il M5S) ha assunto più la caratteristiche di un ectoplasma che quelle di un movimento politico.

Insomma al Nazareno non possono che essere soddisfatti: mai avevamo visto un partito uscire massacrato alle elezioni (2018, non mille anni fa) e diventare il padrone assoluto della scena (ci rifletta mr. Salvini, questo è in larga misura un suo capolavoro).

Siccome però le medaglie hanno sempre due facce, a tanto onore e successo (e quindi potere) si associa anche molta responsabilità. E proprio per questo ora il Pd deve farsi qualche domanda ed il suo segretario deve provare a trovare qualche risposta. Se infatti è comprensibile che Zingaretti escluda nuove maggioranze (peraltro viste come un iattura tanto al Quirinale quanto a Bruxelles), un po’ meno comprensibile è la tesi riassumibile nel motto “va tutto bene”.

Facciamo qualche esempio per capirci meglio.

Va tutto bene sul fronte giustizia dopo lo scontro Di Matteo-Bonafede e la inquietante vicenda scarcerazioni per Covid-19 con successivo decreto per riportare in carcere le persone uscita da poche settimane?

È tutto a posto sul fronte delle emergenze sanitarie in vista della seconda fase della pandemia, dopo i balletti di cifre sulle mascherine (con annessi tentativi di sovietizzazione del prezzo), il caos tutt’ora vigente in materia di tamponi e test sierologici e il perdurare nel limbo di “Immuni” l’applicazione di Stato per il tracciamento dei contagi?

Siamo sicuri che una iniezione di competenze (un nome per tutti: Vittorio Colao) nella vita del governo può limitarsi ad una pletorica e periferica commissione consultiva?

C’è consapevolezza nel governo del fatto che il momento più difficile sarà tra settembre e la fine dell’anno, quando, tanto per fare un esempio, gli operatori del turismo dovranno prendere atto (numeri alla mano) che avremo alle spalle l’anno più “magro” di sempre?

Si comprende (al ministero per gli Affari Esteri) che le posizioni competitive sui mercati internazionali non torneranno quelle di prima e che quindi c’è un pericolo gravissimo di difficoltà per le produzioni italiane (agroalimentari, ma non solo)?

È chiaro ai massimi responsabili politici della maggioranza che l’Italia non reggerebbe con facilità ulteriori abbassamenti del suo rating da parte delle grandi agenzie internazionali, atteso che dovremo far crescere (e non di poco) il nostro debito pubblico?

Proprio oggi il sindaco di Milano consiglia a Conte di mettere mano alla composizione del governo, rafforzandone le competenze: è certamente il segnale di una scuola di pensiero che inizia a farsi strada.

Il punto centrale però torna quello di cui sopra: è convinto Zingaretti che va tutto bene? O non è forse meglio pensare a qualcosa prima che sia troppo tardi?

In fondo prevenire è meglio che curare.

Ma Zingaretti è proprio sicuro che va tutto bene? Il commento di Arditti

Per ragioni tutto sommato comprensibili dai vertici del Partito democratico sono arrivati messaggi precisi nelle ultime due settimane, condensabili in un concetto semplice: a questo governo non vi sono alternative, chi decide di buttarlo giù (Renzi, tanto per fare un nome) otterrà un solo risultato, cioè le elezioni anticipate. Non è privo di logica questo ragionamento, forte di spiegazioni interne…

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