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Ciò che politica, istituzioni, comitati vari e addetti ai lavori troppo spesso dimenticano è che l’Italia è arrivata al lockdown in una condizione economica e sociale già preoccupante di per sé e che, pensare di risolvere i tanti macroscopici problemi attuali, copiando dal vicino di banco la ricetta per ripartire, rischia di essere miope, imprudente e sicuramente inadeguato.

Dal 2010 ad oggi, sono stati più gli anni in cui il Pil italiano è stato negativo – o sostanzialmente neutro – che gli anni in cui abbia registrato un incremento significativo. Per comprendere meglio, basti pensare che in Cina, nello stesso periodo, il Pil è cresciuto ogni anno con un incremento superiore al 6% e, in alcuni anni, anche superiore al 10% e – nonostante ciò – la Cina, in questo momento, è preoccupata per la sua ripresa economica.

I problemi del nostro Paese erano importanti ancora prima che ad essi si aggiungesse il Covid ed oggi, oltre ad un’eredità pesante, figlia di dieci interminabili anni di campagna elettorale, ci si è aggiunta appunto la pandemia e l’aggravarsi della crisi economico-sociale ad essa connessa.

Eravamo e siamo il Paese con il più alto tasso di legiferazione – e direi che anche in questi mesi/giorni non ci siamo smentiti – eppure non riusciamo a normare in maniera chiara, sintetica e decisa una sola fattispecie. Eravamo e siamo il Paese con la burocrazia più complessa, in cui per avviare una qualunque iniziativa economica o sociale è necessario bussare a troppe porte, dietro le quali, spesso, si nasconde la piaga della corruzione.

Eravamo e siamo il Paese con la giustizia più lenta e incerta: 1 anno e 6 mesi circa la durata dei processi di primo grado, 2 anni e 4 mesi circa i processi di secondo grado, 3 anni e 7 mesi circa i processi in Cassazione: in totale, 7 anni e 5 mesi circa di media per arrivare ad una sentenza che formi un giudicato.

Eravamo e siamo il Paese in cui il fallimento di una società diventa un’onta indelebile per il merito creditizio di chiunque vi abbia, amministratori e soci e non siamo mai riusciti a superare tale preconcetto per arrivare a pensare al fallimento come ad una fase – patologica ovviamente – della vita di un’impresa. Ed ecco, quindi, che si nega a se stessi il cattivo stato di salute delle nostre imprese e si tentano strade impervie pur di evitare di esser bollati come “falliti”.

Eravamo e siamo il Paese in cui non è stato possibile, in dieci anni, raggiungere una stabilità politica che permettesse l’adozione di riforme organiche e di lungo periodo.

Siamo il Paese in cui, l’ultima grande riforma costituzionale portata a termine, è stata quella legata proprio all’autonomia delle regioni in talune materie e, oggi, cadiamo dalla sedia quando vediamo Governatori assumere decisioni apparentemente in contrasto con le linee guida fornite dal Governo o le decisioni assunte da altre regioni, magari confinanti.

Questi sono soltanto alcuni dei mali che affliggono il nostro sistema paese da che ho memoria; a questi potremmo aggiungere la carenza di nuove infrastrutture e la vetustà delle esistenti; i tantissimi concorsi fermi da anni e le graduatorie in cui tantissimi cittadini sono nel frattempo invecchiati; una scuola eccellente nei contenuti e fatiscente nelle strutture; una classe insegnante eccellente ma mal pagata e bistrattata da lustri; un sistema sanitario inadeguato in cui operano – nonostante tutto – persone eroiche che invece di pensare ai pazienti, sempre più spesso, devono preoccuparsi di procacciarsi la carta per la stampante con cui scrivere i referti.

A tutto questo, nel 2020, si è aggiunto il Covid-19 e tutto ciò che ne è derivato.

La ricetta per ripartire è complessa e tocca svariati ambiti; nel dubbio, mi permetterei di suggerire di intervenire su quelli che già rappresentavano i punti deboli del nostro sistema, prima di imparare il significato di “Covid”. Suggerirei di partire con lo snellimento delle procedure amministrative connesse con qualsivoglia iniziativa economica e con la riforma e semplificazione del codice degli appalti.

Proverei ad epurare della burocrazia quanti più ambiti possibili; che senso ha adottare provvedimenti incentivanti per una ristrutturazione, se per portarla a termine servono almeno 3 professionisti che ne curino solo gli aspetti legali e amministrativi, oltre che decine e decine di fogli di carta depositati qua e là, da recuperare magari tra 15 anni quando vorremo vendere quella casa?

Proverei, una volta per tutte, a toglierci di dosso il marchio di Paese dei “maxiemendamenti” in cui normare tutto e il contrario di tutto; lavorerei a singoli testi unici che normino, ciascuno, un ambito della nostra esistenza, o almeno quelli fondamentali: sanità, scuola, fisco e lavoro su tutti.

Riformerei finalmente la giustizia; incentiverei la mediazione non riconducendola ad un mero adempimento prodromico ad una causa, ma ad una vera e propria chance di soluzione di una controversia. Esistono materie che potrebbero essere devolute esclusivamente ad una composizione stragiudiziale ma forse non conviene a molti. Ce la prendiamo sempre più spesso con Giudici e addetti al sistema della giustizia non immaginando nemmeno che ogni giorno, in tutta Italia, vengono avviate migliaia di nuove cause.

Proverei a lavorare ad una flat tax simile alla cedolare secca applicata alle locazioni che, se ci pensiamo, ha praticamente permesso l’estinzione del mal costume degli affitti in nero; lavoriamo, semmai, a più aliquote e inaspriamo le sanzioni per chi evade, ma troviamo una soluzione in grado di far pagare tutti.

Proverei a snellire tutte le procedure per la cessione di beni immobili e mobili registrati, ove possibile detassando i trasferimenti e abolendo alcuni balzelli messi qua e là negli ultimi anni su immobili e veicoli.

Incentiverei la cultura, tutta!
Incentiverei l’organizzazione di eventi e la loro partecipazione, in tutta sicurezza.
Incentiverei la pubblicazione di prodotti editoriali e libri e la loro lettura.
La realizzazione e l’acquisto di opere d’arte, in ogni forma e a tutti i livelli.
Incentiverei lo studio, l’iscrizione all’università, la partecipazione a corsi di ogni tipo, scolastici, accademici, artistici e sportivi.

L’obbiettivo di questa classe dirigente è e deve essere – finalmente – lavorare ai prossimi 10 anni per ripagare i nostri figli, a cui abbiamo chiesto un grosso sacrificio, con un paese migliore quando toccherà a loro entrare nel mondo del lavoro.

Lascio agli esperti – e nel nostro paese non mancano – declinare questi spunti nelle forme e nei modi più consoni, se riterranno, senza però dimenticare l’assunto da cui questa riflessione è partita: l’Italia era un paziente già convalescente prima di conoscere il Covid e non è la Germania o la Francia.

Anche perché, come noto, gli Italiani non sono i tedeschi o i francesi; gli italiani hanno insegnato a tutta Europa – per non dire a tutto il mondo – cosa sia l’arte, la cultura, la moda, l’eccellenza… E se ci pensate, lo abbiamo fatto in quattro gatti rispetto alle altre potenze mondiali.

Non è tutta colpa del Covid-19. Qualche spunto per la ripartenza. Scrive l’avv. Arcuri

Di Gabriele Arcuri

Ciò che politica, istituzioni, comitati vari e addetti ai lavori troppo spesso dimenticano è che l’Italia è arrivata al lockdown in una condizione economica e sociale già preoccupante di per sé e che, pensare di risolvere i tanti macroscopici problemi attuali, copiando dal vicino di banco la ricetta per ripartire, rischia di essere miope, imprudente e sicuramente inadeguato. Dal 2010…

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