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Quanto avvenuto alla fine della settimana ha del paradossale: alla domanda di “più Europa” da parte di numerosi Stati di fronte alla crisi del coronavirus, alla recessione mondiale ed all’approssimarsi dello scoppio di una “bolla finanziaria” che potrebbe essere più clamoroso di quello del 2008, le istituzioni dell’Unione europea hanno risposto promettendo, invece, “meno Europa”. Così si devono intendere le azioni prese dalla Banca centrale europea (Bce) e dalla Commissione europea (Ce) che alcuni commentatori hanno plaudito giudicandole come misure in linea con le richieste degli Stati membri, specialmente di quelli più colpiti dal coronavirus.

Andiamo con ordine. Dopo lo scivolone verbale della presidente (che ha fatto andare in tilt i mercati, specialmente Piazza degli Affari), in una teleriunione ad ora tarda, il Consiglio della Bce ha varato quello che è stato presentato come un “bazooka”: un aumento del Quantitave Easing (Qe) per il resto dell’anno. Basta fare quattro conti con un pallottoliere (senza neanche utilizzare la calcolatrice del telefono portatile) per accorgersi che il Qe per il 2020 è inferiore anche in termini nominali a quello lanciato nel 2011 quando si trattava di andare in soccorso della Grecia (e forse di Irlanda, di Portogallo e di Spagna) non di quasi tutti gli Stati dell’unione monetaria, certamente dei più importanti in termine di popolazione e di reddito.

C’è una piccola clausola che potrebbe facilitare l’Italia: il Qe non deve essere in proporzione al capitale della Bce contribuito da ciascuna Banca centrale nazionale. Le misure della Bce contemplano anche un “alleggerimento” della vigilanza: ciò può dare fiato a qualche istituto bancario travagliato da crediti poco solvibili ed incagli. Tuttavia, aggrava le responsabilità, oltre che sui singoli istituti, sulle Banche centrali nazionali. In inglese si direbbe è un cope out, un tirarsi indietro. In termini di politica monetaria.

Il vero capolavoro, però, è in termini di fiscal policy o di politica di bilancio. Un analogo, e più serio, cop out è stato presentato da tutte le dramatis personae, (dai protagonisti ai comprimari di stanza sia a Roma sia a Bruxelles) come un successo della diplomazia economica internazionale dell’Italia e di altri Stati, pur come sottolinea l’ex Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, in un editoriale sul Sole-24Ore “tutti si muovono in ordine sparso”, quindi senza alcuna diplomazia economia internazionale concertata o solo coordinata.

In sintesi, viene sospeso il Patto di Stabilità e si ricorda che ci sono 800 milioni di euro di fondi strutturali che possono essere utilizzati per la crisi del coronavirus. La sospensione del Patto di Stabilità, e del Fiscal Compact, era già prevista in caso di shock esterno negli accordi istitutivi e numerosi Stati se ne avvalgono da anni. Gli 800 milioni di euro non sono aggiuntivi ma già in bilancio: se vengono impiegati come munizioni contro il coronavirus non possono essere utilizzati per altri scopi come la formazione, lo sviluppo delle aree in ritardo, il supporto alle piccole e medie imprese ed altri obiettivi socialmente meritevoli. Quindi, non viene concessa “più Europa” ma sempre la stessa Europa. Un’operazione più mediatica che sostanziale.

La sospensione del Patto di Stabilità assomiglia ad un vero e proprio gioco delle tre carte perché, se non accompagnata da altri ben più incisivi strumenti, gli Stati che più potrebbero avvantaggiarsene sono quelli che a farlo, correrebbero maggiori rischi. Prendiamo l’Italia il cui debito pubblico è pari al 136% del Pil. Se utilizza in pieno la “finestra d’opportunità” della sospensione del Patto di Stabilità avrà per qualche anno un aumento del disavanzo dei conti pubblici e quindi del rapporto debito Pil che verrebbe comunque ampliato dalla recessione iniziata nel quarto trimestre 2019. Tra pochi, pochissimi anni raggiungerebbe il 170% del Pil: verrebbe ancora considerato “sostenibile” dagli italiani che comprano titoli di Stato e soprattutto dagli stranieri che acquistano un terzo delle nostre emissioni per finanziarlo e rifinanziarlo?

A chi mostra il caso della Gran Bretagna il cui debito pubblico superava il 250% del Pil nel 1945, occorre ricordare che dal 1939 operava quella che Richard Gardner, Ambasciatore americano in Italia all’epoca della presidenza Carter e grande studioso della Columbia University, ha chiamato, in un suo libro fondamentale, la sterling dollar diplomacy iniziata con il lend lease act e proseguita con la costruzione insieme delle istituzioni di Bretton Woods. Il debito pubblico britannico era in sostanza garantito dagli Usa e dalle istituzioni che Usa e Gran Bretagna avevano modellato ed eretto insieme.

L’Ue, o meglio i maggiori Stati europei, sono pronti a fornire analoghe garanzie anche solo sotto la forma minimale di bond emessi da un’autorità europea? Non pare proprio: non si riesce da oltre un lustro a completare la monca unione bancaria con una garanzia europea sino a 100 mila euro ai conti correnti. Si oppone non solo e non tanto la Germania. Basta leggere l’intervista del Governatore della Banca nazionale austriaca data la settimana scorsa a Die Standard di Vienna per chiarirsi le idee.

In breve, la sospensione del Patto di Stabilità vuol dire: indebitatevi, se volete, sapendo che l’Ue non vi aiuterà a tirare la castagne dal fuoco.

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