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Nell’oramai dichiarata Cold War II fra Usa e Cina, il 5G è uno dei campi di battaglia dove si combatte una guerra di trincea dal sapore primo-novencentesco. Eserciti schierati uno di fronte all’altro, scaramucce, attacchi e ritirate dell’una e dell’altra parte, nell’attesa – o nella speranza – che uno dei due “ceda”. E nell’attesa, ciascuno cerca il modo di aprire dei nuovi fronti per indebolire la forza dislocata su quello principale.

È chiaro che, come nel caso del tentativo di accreditare la tesi della responsabilità cinese per la diffusione del coronavirus, anche il “pericolo per la sicurezza nazionale” rappresentato da Huawei sia un elemento di propaganda più che un pericolo reale. La decisione più o meno repentinamente assunta di recente dall’Inghilterra di rimettere in discussione lo status di Huawei non è fondata su prove concrete ma su “claims” del governo Usa che ha giustificato il divieto per l’azienda cinese di usare tecnologia americana con le cointeressenze fra Huawei e l’apparato militare cinese. Questo, a dire degli analisti britannici, comprometterebbe la “sicurezza nazionale” perché Huawei dovrebbe approvvigionarsi di chip e strumenti di progettazione altrove, con una ridotta possibilità per le autorità inglesi di controllare efficacemente la innocuità dei prodotti.

Il copione, dunque, è lo stesso già utilizzato, appunto, nel caso del coronavirus e analizzato sulle pagine di Formiche.net e che si può sintetizzare parafrasando il famoso slogan creato dalla McCann-Erickson per un carosello della Zanussi che andava in onda negli anni Settanta, “parole, non fatti”. Cioè affermazioni non dimostrate (perlomeno pubblicamente), invito a “fidarsi”, adozione unilaterale di provvedimenti punitivi, innesco di una reazione a catena di eventi politici, economici e, dio non voglia, militari.

Intendiamoci, non che sia impossibile sfruttare la superiorità tecnologica a favore degli interessi individuali di un Paese. Nel corso del tempo si sono succedute notizie di backdoor “ad uso istituzionale” presenti in apparati di telecomunicazioni e software statunitensi (su tutti, i casi Microsoft –  Juniper Networks  e l’antesignano Clipper Chip di clintoniana memoria utilizzati ampiamente anche da questo lato dell’Oceano Pacifico e oltre. Realpolitik e Machtpolitik insegnano che la tutela degli interessi nazionali non è limitata dal “galateo diplomatico” e che, in un mozartiano “Così fan tutti”, si spiano soprattutto gli “amici” prima ancora dei nemici.

In termini puramente geopolitici, dunque, il problema non è il “se” vengono fatte certe cose, ma lo scegliere insieme a chi farle.
Ora, è evidente che a livello strategico gli Usa abbiano dei motivi seri (alcuni palesi, come il controllo cinese sul debito americano, altri meno, conosciuti solo dagli addetti ai lavori) per riequilibrare il proprio rapporto con la Cina. Come è evidente che a livello tattico l’obiettivo è contenere l’invasione economica e tecnologica cinese non solo in patria, ma anche (quantomeno) in Europa. E dunque si spiega logicamente che, a livello operativo, vengano sfruttate alleanze (con il Regno Unito) e debolezze (europee) storiche in materia di sicurezza per fare “terra bruciata” attorno alla Cina.

Si spiega di meno, invece, perché un interesse prettamente nazionale, quello americano, debba diventare automaticamente rilevante anche per altri Paesi e, in particolare, per l’Italia, e perché l’Italia dovrebbe accettare di sostenere un interesse altrui senza ottenere nulla in cambio. O, meglio, si spiega molto bene guardando la fine che ha fatto la grave minaccia del “pericolo giallo” che nel settembre 2019 ha portato all’emanazione del decreto legge 105/2019 poi convertito nella Legge 133/2019 sul “perimetro nazionale di sicurezza cibernetica”.

A distanza di quasi otto mesi dall’emanazione del decreto 105, della definizione concreta del “perimetro nazionale di sicurezza cibernetica” non c’è ancora traccia, come non risulta che il “Centro di valutazione e certificazione nazionale” sia entrato in funzione, e men che meno che siano stati emanati i provvedimenti per notificare gli apparati che si intendono usare all’interno del perimetro e per la notifica degli incidenti al Computer Security Incident Response Team (lo schema di decreto del Presidente del Consiglio “giace” in attesa di parere parlamentare dal 4 giugno 2020). Ma, soprattutto, ancora sono state fornite evidenze delle “minacce” per la “sicurezza nazionale” che hanno giustificato la “necessità” e “urgenza” di attribuire al Presidente del Consiglio di “spegnere” le reti di telecomunicazioni (un potere, è bene ricordarlo, questo sì immediatamente esecutivo).

È abbastanza chiaro, dunque, che la “minaccia per la sicurezza nazionale” rappresentata dal dominio cinese sulla tecnologia 5G ha rappresentato poco più di un espediente retorico per giustificare l’attribuzione immediata al Presidente del Consiglio di un potere di negoziazione dei confronti dei grandi padroni della tecnologia rappresentato dalla possibilità di impedire che determinati prodotti e servizi possano essere commercializzati in Italia. Che questo potere venga utilizzato – in continuità con Usa, Inghilterra e Francia – verso la Cina è abbastanza evidente. Sarà interessante vedere, invece, se verrà applicato anche agli Usa e a Israele, vista l’accelerazione della dipendenza nazionale da tecnologie extracomunitarie causata dalla pandemia e il programma di massiccia digitalizzazione annunciato dal governo italiano.

Dal punto di vista della protezione degli interessi nazionali italiani, il caso Huawei fornisce un ulteriore – e preoccupante – spunto sulle conseguenze della dipendenza tecnologica del nostro Paese dagli Usa. I fatti dimostrano che, se solo volesse, il governo americano potrebbe impedire all’Italia (o minacciare di impedire) senza preavviso l’utilizzo di tecnologie, software e apparati che sono diffusi praticamente ovunque, dalle infrastrutture critiche, ai servizi essenziali e fino nelle case di ciascuno di noi. La prospettiva sarà anche inverosimile, ma sarebbe interessante sapere se gli analisti della Presidenza del Consiglio hanno riflettuto anche su scenari del genere.

Visto che nel mondo della sicurezza si ragiona in base al principio di precauzione e in quello della geopolitica sulla constatazione che non esistono “amici” ma “alleati” e che dunque gli amici di oggi possono essere i nemici di domani, è sperabile che qualcuno si stia ponendo il problema della sopravvivenza tecnologica – e dunque della sopravvivenza tout-court – del nostro Paese.
Il tutto, ovviamente, in attesa che l’Unione Europea dia un segno di vita.

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