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Ci sarà tempo e modo per valutare il contributo di Luciano Pellicani alla cultura italiana di questo secondo dopoguerra. Che sicuramente non è stato irrilevante, e comunque segnato da una buona dose di originalità e creatività.

Era senza dubbio un intellettuale scomodo, che, come suol dirsi, era fatto per dispiacere a Dio ma pure “a li nemici sua”. Figlio di comunisti ortodossi, egli ha sviluppato la più radicale critica al marxismo come teologia sia storica sia politica. Partecipò a quel movimento di emancipazione dal comunismo che, opera di una ristretta cerchia di intellettuali anticonformisti, cominciò a smuovere le acque del conformismo ideologico italiano negli anni Settanta, nel pieno della stagione terroristica, e che poi approdò in buona parte nell’esperienza dei “professori liberali” di Forza Italia.

Pellicani rimase invece sempre ancorato a sinistra, pur essendo considerato da quel gruppo “uno di loro”. A sinistra invece non lo amavano, e anzi non gli davano lo spazio che avrebbe voluto e che meritava. Troppo anticomunista per chi aveva ancora tanti scheletri nell’armadio e non era riuscito a fare una seria autocritica del proprio passato!

La sua illusione è che si potesse costruire un socialismo compiutamente liberale, assolutamente non marxista e che riscoprisse la vecchia tradizione libertaria, umanitaria, solidaristica, che aveva preceduto e accompagnato la fase di piena del marxismo. Pellicani doveva perciò incontrarsi naturaliter con il progetto di Bettino Craxi dell’ “autonomia socialista”, di cui, grazie anche alla sensibilità di colui che fu uno degli ultimi grandi statisti italiani, divenne ispiratore e sistematizzatore. Soprattutto attraverso le colonne di “Mondoperaio”, di cui negli anni Ottanta assunse la direzione, facendone una rivista moderna e aperta quanto altre mai nella lunga storia della sinistra italiana.

Il famoso saggio su Proudhon con cui Craxi ruppe con il marxismo fu ispirato, e forse persino scritto, in toto da lui. Pur avendo ricoperto cariche accademiche e organizzative, Pellicani era fondamentalmente uno studioso, poco interessato alla vita pratica: se uno lo cercava, casomai per un consiglio bibliografico, bastava che alzasse la cornetta e lo trovava a casa immerso fra i libri. Aveva una cultura sterminata, che dominava anche filologicamente, anche se non era scevro, come tutti i grandi studiosi, da qualche fissazione o faziosità intellettuale che lo faceva essere polemico nel senso etimologico della parola. Lungi dall’essere però un apatico topo di biblioteca, egli era un uomo di passione. Non c’erano molte alternative, nei rapporti umani con lui: o ti ignorava o ti considerava amico. E se ti considerava amico finivi, casomai nel giro di una sola serata, per litigarci e poi per rappacificarti. I motivi? Una data interpretazione di Max Weber piuttosto che di Adam Smith, del cristianesimo o dell’induismo, ecc. ecc.

Una volta tanto, senza essere retorici, si può dire che, dalle chiacchierate con lui, lunghe e appassionate, se ne usciva sempre più ricchi. I suoi interessi principali concernevano la nascita della modernità e la genesi del capitalismo, la secolarizzazione e l’inveramento nelle politiche di welfare della sua idea di socialismo liberale. Nemico di ogni teologia, in lui permaneva però un teleologismo più o meno illuministico che lo portava a credere nell’idea di progresso non dico alla maniera di un Condorcet, ma certo in quella di un Diderot o di un Voltaire.

Anche il suo anticleralismo di stampo ottocentesco si inseriva in questa adesione allo spirito illuministico e alla modernità, che però non era mai acritico e anche sempre tormentato dai dubbi e dalle incertezze dello studioso. Non sopportava gli intellettuali di sinistra e i radical chic, e la sua idiosincrasia era abbondantemente ricambiata da costoro. Gli studenti lo amavano e lo riconoscevano per strada ad anni di distanza, anche in virtù di quell’intuito che porta i giovani a capire d’istinto chi dalla cattedra vende cultura e chi invece vende fuffa.

Ieri era il compleanno di Luciano, l’ottantunesimo, ma per lui, consunto dalla malattia, rapida e implacabile, è stato un vero venerdì di passione. Come i vecchi socialisti dell’Ottocento, egli era sì un nemico dei preti, certo, ma sicuramente non avrebbe esitato a dire che Cristo fu il primo socialista.

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