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Mentre la crisi libica è lontana dalla soluzione, un po’ più a sud il terrorismo islamico continua a farla da padrone e rende sempre più instabile un’ampia zona africana con il costante rischio di un effetto domino. L’episodio più eclatante è stato l’attentato del 12 dicembre quando in Niger un centinaio di jihadisti ha attaccato la base militare di Inates, al confine con il Mali, uccidendo almeno 70 soldati e ferendone parecchi altri: due autobomba, uso di mortai e dozzine di combattenti a bordo di moto che subito dopo hanno attaccato i militari. Un episodio che tutti i principali think tank hanno collocato al centro delle analisi sul Sahel come bomba sempre più prossima alla deflagrazione.

L’attentato è stato rivendicato dall’Isgs, lo Stato islamico nel Grande Sahara, a nome della “nuova” Boko Haram, l’organizzazione terroristica nigeriana oggi Iswap (Islamic State in West Africa Province) e a tutti gli effetti ormai parte dell’Isis. In un report del Cesi, il Centro studi internazionali, l’attacco viene definito “il nuovo punto apicale raggiunto dal jihadismo saheliano” al termine di un anno nel quale il Mali, il Burkina Faso e il Niger sono stati colpiti da un crescente numero di attentati con obiettivi rilevanti dal punto di vista economico, politico e militare. Secondo Marco Di Liddo, autore del rapporto, l’inedito livello di sofisticazione e la dinamica dell’attentato dimostrano una notevole organizzazione logistica per l’approvvigionamento di mezzi e di armi e sono l’effetto delle “lezioni apprese durante l’ultimo decennio di jihad nel deserto”.

Quello che in Occidente non viene percepito è che le popolazioni locali solidarizzano con le organizzazioni terroristiche perché beneficiano di un certo tipo di welfare che gli Stati non garantiscono. È il caso della tribù dei Fulani, pastori seminomadi in conflitto con gli agricoltori Zarma e i pastori Tuareg sostenuti dal governo nigerino: i movimenti jihadisti sono così diventati gli interlocutori dei Fulani con armi, un sistema amministrativo, terre e acqua. Il Cesi lo spiega semplicemente: il jihad “rappresenta la rivolta, sapientemente ideologizzata e manipolata, delle campagne contro la città, delle minoranze discriminate contro le strutture di potere corrotte”. In poche parole, “il jihadismo è l’oppio dei popoli emarginati nel Sahel”.

La guerra per la supremazia nel jihad tra l’Isis e al-Qaeda si manifesta anche così. Le comunità emarginate del Mali e del Burkina Faso sono vicine ai qaedisti del Gruppo per la Salvezza dei Musulmani e dell’Islam (Gsim) mentre la “provincia” del Califfato rappresentata dall’Isgs prevale nel Niger. Da anni organizzano attacchi anche nel Burkina Faso e nel Mali: lo scopo di entrambi i gruppi terroristici è quello di provare a cacciare gli occidentali dal Sahel e secondo il Soufan Center di New York gli attacchi potrebbero andare oltre il Burkina, toccando anche Togo e Benin. È un’espansione continua e il think tank di Ali Soufan sostiene che la strategia di colpire obiettivi militari lungo i confini sta portando a una sempre maggiore assenza statuale e quindi a un sempre più grande territorio controllato dai terroristi.

Il Niger, ricorda il Cesi, è il più importante hub per i traffici illeciti di armi, droga ed esseri umani e per l’Isis rappresenta “il principale bastione saheliano” se non di tutta l’Africa. Da lì il Califfato vuole ripartire e riorganizzarsi dopo la morte del leader Abu Bakr al-Baghdadi ed è lì che ci sono molte presenze occidentali, a cominciare da Francia e Italia. Nell’operazione Barkane i francesi hanno 4mila militari che non possono controllare un’area gigantesca, le missioni europee e internazionali servono a poco e l’Italia ha un contingente per addestrare le forze di sicurezza nigerine e concorrere alla sorveglianza delle frontiere con un massimo di 290 unità, 160 mezzi terrestri e 5 mezzi aerei. Non si può escludere che il jihad punti anche contro determinati obiettivi militari occidentali.

In Africa si spendono molti soldi per la sicurezza, ma forse si spendono male. Questa è l’opinione dell’International Crisis Group che ricorda i 2 miliardi di dollari spesi per la difesa nel 2018 dalla Nigeria, spinta ad aiutare il Ciad che ne ha spesi solo 233 milioni. La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, secondo il think tank statunitense, dovrebbe concentrarsi su un migliore scambio di informazioni di intelligence e sulla lotta alla corruzione di poliziotti e doganieri piuttosto che su costose operazioni militari. L’auspicio, forse utopistico, è che i leader politici si rendano conto che il terrorismo non è l’unica minaccia altrimenti (scrive il Crisis Group) l’anno prossimo l’accoppiata tra i disordini di natura politica nella parte meridionale dell’Africa Occidentale uniti e l’insicurezza della parte settentrionale potrebbe essere catastrofica.

In una situazione così preoccupante, il 2020 già prevede una nuova riunione della coalizione anti Isis che si terrà in Italia, come annunciò a metà novembre il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al termine del vertice di Washington. Scopo della riunione, disse, sarà “riuscire ad affrontare il problema del terrorismo anche nella parte sud del Mediterraneo, cioè nei Paesi del Nord Africa, nel Sahel e in tutte quelle zone in cui c’è il rischio che proliferi il terrorismo a causa dell’instabilità”. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aveva proposto che la coalizione allarghi il proprio raggio d’azione all’Africa Occidentale e al Sahel anche se, secondo il New York Times, il Pentagono vuole ridurre significativamente le truppe in quel continente, dove ci sono tra i 6mila e i 7mila soldati statunitensi, per concentrarsi su Russia e Cina. Il quotidiano sottolinea che un ritiro massiccio causerebbe problemi ai francesi che combattono i jihadisti in Mali, Niger e Burkina Faso: il supporto Usa a queste operazioni costa 45 milioni di dollari l’anno. Da un lato ci sono opinioni diverse nell’amministrazione americana, dall’altro c’è una missione dell’Unione europea in Libia ancora da definire: l’Occidente dovrà decidere se affrontare di petto il jihadismo in Africa o lasciare che si estenda sempre di più.

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