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Ferve più che mai intenso il dibattito sulla fase 2, sui suoi tempi e soprattutto sulla necessità di linee guida per la piena ripresa del Paese, visibilmente stremato da Nord a Sud da un lockdown sui cui caratteri, sulla cui attuazione e sulle cui contraddizioni vi sarà, a nostro avviso, molto da riflettere nei prossimi mesi, anche per non ripeterne alcuni errori commessi a livello locale ormai evidenti.

Ma per ora limitiamoci ad osservare come sia più che mai opportuno e necessario che buona parte della produzione industriale nazionale, fermatasi bruscamente a metà marzo, riparta da lunedì affiancandosi a quella che, invece, aveva continuato ad offrire beni e utilities indispensabili come alimentari, farmaceutici ed energia, o in settori, come ad esempio l’aerospazio, a buona ragione ritenuti strategici dal governo: prosecuzioni di attività trasformatrici di beni – è doveroso saperlo e ricordarlo anche ad alcuni epidemiologi totalmente a digiuno (purtroppo) di economia – che fra l’altro hanno consentito all’Istat di rilevare una flessione del “solo”4,7% del Pil nel primo trimestre dell’anno, meno cioè di quanto si fosse temuto. Una prosecuzione di attività industriali, aggiungiamo, cui larga parte del manifatturiero localizzato nell’Italia meridionale ha offerto un contributo oltremodo significativo perché in alcune delle sue regioni sono in esercizio ormai da anni molti stabilimenti di rilievo nazionale dei comparti prima richiamati.

Si riparte in sicurezza dunque, con protocolli sottoscritti fra aziende e sindacati che dovranno essere rispettati e fatti rispettare in forme assolutamente inflessibili, ma si torna a produrre in larga parte di quella manifattura italiana, ancora seconda in Europa – salvo possibili rettifiche di Eurostat sui valori aggiunti nazionali – che è il motore trainante, anche se non l’unico, del “made in Italy”: una ripresa delle produzioni industriali che concorrono (ancora) a conferirci credibilità come Paese con un elevatissimo debito pubblico, che deve poter contare su acquisti dei suoi titoli in quantità praticamente illimitate da parte della Bce – salvo sentenza della Corte costituzionale tedesca di martedì prossimo – e che, accumulando altro deficit, ha promosso sinora due manovre di politica economica prevalentemente distributive per assicurare, com’era giusto che fosse, un minimo vitale al maggior numero possibile di cittadini, impossibilitati a svolgere le loro abituali attività lavorative, anche quelle più umili e spesso remunerate in nero, ma comunque capaci di assicurare un qualche reddito di sussistenza.

Ma ora – se ne convincano tutti quegli esponenti politici che sembrano trovarsi più a loro agio nel distribuire risorse (acquisite a debito) piuttosto che avanzare proposte per rilanciare strutturalmente la macchina industriale del Paese – bisogna tornare a produrre tutti quei beni e servizi nei quali l’Italia è leader nel mondo, e che – ricordiamocelo – insieme al risparmio privato ci assicurano ancora credibilità come debitori solvibili. O qualche sprovveduto in Parlamento e nel Paese – inebriato dalla rapidità e dalle dimensioni con cui in due mesi sono stati superati dal governo i vincoli del Patto di stabilità, sospesi ma non abrogati dalla Commissione europea – ritiene che si possa continuare ad accumulare debito ad oltranza, peggiorando ulteriormente il rapporto deficit/Pil? E della necessità di tornare a produrre si convincano (finalmente) anche alcuni epidemiologi che ci sembrano indulgere (sempre e soltanto) ad un certo estremismo prescrittivo, dando poi per scontato, con previsioni apocalittiche di ricoveri in terapia intensiva, un ritorno in più ondate dell’epidemia – e la cui terapia pertanto sarebbe solo la riproposizione di lockdown nazionali o locali – invece di concorrere ad affinare ulteriormente terapie farmacologiche e le loro metodiche di somministrazione rivelatesi efficaci, o di mettere a punto procedure realmente utili di isolamento dei contagiati e non loro ‘ammassamenti coatti’ in ambiti domestici ove pure il virus ha colpito, così come, sia pure con maggiore durezza, nelle Rsa.

Allora, secondo chi scrive, ha pienamente ragione il Commissario Domenico Arcuri il quale nei giorni scorsi – all’indomani della divulgazione delle simulazioni compiute dal Comitato tecnico-scientifico dei contagi e delle relative stime (spesso apocalittiche) di ricoveri in terapie intensive – ha dichiarato che l’epidemia, ora in fase discendente, potrebbe anche tornare a salire per il numero dei contagiati, ma che ora saremmo pronti ad affrontarla, grazie a tutto quanto è stato già messo in campo sinora per fronteggiarla, e che perciò, se rispetteremo le misure di prevenzione del contagio con l’uso (là dove e quando prescritto) dei Dpi, non vi sarà alcuna apocalisse prossima ventura.

Allora, a chi parlava in realtà il Dott.Arcuri? A quali e quante “nuore” si rivolgeva perché altrettante “suocere” intendessero? A quali Palazzi ministeriali e a chi nella comunità scientifica intendeva riferirsi?

 

E ora torniamo a produrre (in sicurezza). Parola del prof. Pirro

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