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Venerdì sera, nell’ennesima conferenza stampa (senza contraddittorio e a reti, off e online, unificate), abbiamo appreso direttamente da Giuseppe Conte la notizia della costituzione di una nuova task force, che si somma a quella già creata dal ministero dell’Innovazione nonché al Comitato Tecnico Scientifico attivo sin dall’inizio della crisi con compiti di consulenza al capo del dipartimento della Protezione Civile. È questa una buona o cattiva notizia?

In linea generale, laddove i politici si avvalgono di consigli dei competenti, non si può che apprezzare la cosa. Attraverso ciò, si ha accesso a punti di vista spesso assenti nel dibattito politico e pubblico (nonché nella tecnostruttura della stessa burocrazia ministeriale), punti di vista che possono rivelarsi assai preziosi per affrontare crisi drammatiche come è, d’altra parte, quella che stiamo vivendo in questi mesi. Ma rimane un punto cruciale, che risale fin a La Repubblica di Platone. Che tipo di rapporto ci deve essere tra competenza (scientifica) e politica? Come interpretare la frase di Conte: “Vi prometto che se gli scienziati mi danno il via libera…” che si somma a quanto dichiarato dallo stesso premier in una intervista di qualche settimana prima: “Il governo ha ceduto il passo alla comunità scientifica” (nelle risposte da portare avanti sul coronavirus)? La politica può davvero “subappaltare” ogni decisione a comitati scientifici e task force? Ci sono una serie di considerazioni che dovrebbero renderci scettici al riguardo.

La più immediata è che così facendo la nozione di accountability (ovvero l’imprescindibilità, in democrazia, di essere tenuto responsabile, politicamente, delle proprie decisioni) viene gravemente offuscata: se un politico fa quello che dicono gli scienziati (vantandosene con orgoglio), più difficilmente potrà essere ritenuto responsabile di alcunché, dato che si potrà sempre nascondere dietro al fatto di stare semplicemente mettendo in atto i consigli di “chi sa”. Uno schermo di protezione dal giudizio degli elettori non banale. Ma non solo questo. In secondo luogo, si da per scontato che esista un qualche cosa di simile ad una oggettiva “verità” là fuori, che aspetta solo gli scienziati di turno per essere scoperta. Ahimè, come si è tristemente visto nelle oscillazioni delle opinioni di famosi virologi in questi mesi, a volte si brancola nel buio, ma con autorevolezza. E chi ha una fiducia messianica nella scienza, specie quando ad essere coinvolte sono decisioni politiche, temo che non abbia compreso esattamente cosa il processo scientifico è: una modalità di ricerca della conoscenza che rimane sempre provvisoria, mai definitiva. Anche in fatto di virus (e su cosa fare per prevenire gli effetti più gravi di una pandemia).

Come ricordato di recente da Christian Drosten, virologo anch’esso, e coinvolto in prima persona come esperto delle implicazioni e delle azioni necessarie per combattere l’epidemia in Germania, “io non percepisco il mio lavoro come un qualcuno che fornisce verità, ma come solamente chi illustra pezzi di verità riconoscendo al tempo stesso sempre l’incertezza della cosa. D’altra parte, io non posso sapere, dato che non è il mio lavoro, cosa rende una decisione politica necessaria”. Una umiltà segno di grande intelligenza che non si vede spesso dalle nostre parti.

E veniamo al terzo punto. Non vorrei che corressimo il rischio del vecchio adagio: “L’intervento è riuscito, il paziente è morto”. La tensione tra sicurezza (dal virus) ed economia è sempre più evidente. A che punto il continuare della quarantena inizierà a creare un effetto a catena inarrestabile nel resto della società? Quando la pressione non inizierà semplicemente a trasferirsi dai nostri ospedali alle banche, negozi di alimentari e distributori di benzina? Quando i decessi non saranno più dovuti ad una infezione, ma ad una bancarotta, ad una carestia, ad un suicidio? Un mese? Due mesi? Sei mesi? Oppure ci siamo già in mezzo e non ce ne rendiamo ancora conto? E che fare a riguardo? Come uscirne? Con tutto il rispetto che gli si possa dare, i medici, i virologi, gli scienziati naturali non hanno le conoscenze per rispondere a queste domande. E farci affidamento sarebbe un errore imperdonabile.

Certo ora c’è questa task-force per la fase 2, con dentro anche economisti, sociologi e psicologi. Siamo messi meglio? Certamente sì, ma solo se la politica non diventi di nuovo subalterna per (sua) comodità. E le parole di Conte di cui sopra, non fanno presagire nulla di buono a riguardo. Vale qua la pena riportare le conclusioni del Consiglio Etico tedesco del Bundestag, a proposito dell’attuale crisi: “Il Consiglio Etico vorrebbe incoraggiare sia i responsabili politici che il pubblico in generale a comprendere i vari scenari di conflitto come problemi normativi. La loro risoluzione è un compito per la società nel suo insieme. Sarebbe contrario all’idea di base della legittimità democratica delegare le decisioni politiche alla comunità scientifica e richiedere da essa chiare istruzioni per il sistema politico. Più di ogni altra, le decisioni dolorose devono essere prese dagli organi che sono incaricati a farlo, in particolare dalle persone che sono investite della responsabilità politica di tali questioni. La crisi del coronavirus coincide con l’Ora della politica democraticamente legittimata”. Una Ora con la “O” maiuscola. Perché la campana suona per tutti. Anche per quei politici che amano parlarci da Facebook.

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